bisogna farlo di pomeriggio

Il sesso, in effetti, è un po’ come la scrittura: ci sono giorni in cui ne hai voglia, giorni in cui non ne hai, giorni in cui ne avresti voglia se trovassi il momento, la concentrazione, la collocazione appropriata.

La donna, in quanto essere squisitamente in balia degli eventi naturali, delle fasi lunari, dei ritmi circadiani, la sera è portata ad accasciarsi in uno stato prossimo all’atarassia o al catatonismo, da cui è arduo distoglierla; l’uomo, non si sa come, è sveglio come un grillo e non si capacita dello scarso o nullo interesse che la sua donna dimostra di fronte alle sue avances amorose.
Questo perché il momento, la concentrazione, la collocazione ideali (per il sesso, non per la scrittura) secondo me si trovano di pomeriggio.

 Mi direte che è un po’ poco per risolvere i problemi del mondo. Dipende dai punti di vista: se partiamo dal presupposto che tutti gli uomini si lamentano, si son lamentati o si lamenteranno, presto o tardi, per la scarsa disponibilità erotica delle loro consorti, compagne o fidanzate di lungo corso, allora la soluzione di questo dramma dell’incomunicabilità potrebbe rivelarsi rivoluzionaria.

 Mi direte che si fa presto a dire pomeriggio, ma le persone normali di pomeriggio lavorano. Lo so: se non si ha la fortuna di orari flessibili e segretarie collaborative è necessario approfittare del fine settimana; nel qual caso il pomeriggio può anche acquistare una durata più che dignitosa, contrariamente al resto della settimana.

 Mi direte che ci sono degli impedimenti sotto forma di figli che di pomeriggio hanno la pessima abitudine di girare per casa. A questo proposito ho deciso che la playstation, il computer, la televisione, i cugini e, in misura minore ma comunque significativa, i compiti per le vacanze sono stati inventati allo scopo di distrarre la prole per il tempo necessario affinché i genitori abbiano la possibilità, previo barricamento in camera da letto, di svolgere i loro amorosi impegni.

 

P1020699Io ve lo dico: funziona molto meglio, di pomeriggio.

 Soprattutto se si dispone di un cartellino sulla porta come il mio (fatto da Lorenzo per la festa della mamma, ma perfetto per l’occasione)

 

di necessità e di smania

La scrittura,  trovo che sia un po’ come il sesso: la ragione principale per farlo è il piacere personale prima ancora che quello altrui (lo so, sono egoista) e invece capita anche, qualche volta, per abitudine o per senso del dovere.

Io da qualche giorno non ho più il mio netbook, che era il mio cordone ombelicale con la rete.
In casa per la verità ci sono due computer: un notebook figo, che però è dello Splendido, e una ciofeca che va a manovella, che è dei bambini. Io li posso usare, quando mi serve, ma non è come avere il Piccoletto di fianco, acceso giorno e notte (si fa per dire: io di notte dormo), solo mio, con le mie password memorizzate ché tanto nessuno oltre a me lo usa, con il plin plon della posta in arrivo.

Lo Splendido mi ha detto dài che ne prendiamo un altro; io sto temporeggiando e lo so che sembra incomprensibile, ma è per via del desiderio.

Io, quando non avevo il Piccoletto giravo con un taccuino in borsa, e guai a dimenticarlo a casa. Magari non avevo accesso a un pc per ore o per giorni e la scrittura era necessaria e improcrastinabile. Nel taccuino ci finiva un po’ di tutto: frasi finite, parole solitarie, pezzi interi con un capo e una coda, che restavano in attesa prima di finire in un post, in una mail o in una lettera d’amore.

Questa abitudine bella l’ho persa, con la comodità di una tastiera sempra a portata di mano. E sarà per via del fatto che sono una tipa all’antica, ma quel desiderio lì, impellente, di scrittura, lo voglio di nuovo. Voglio la penna che scorre sulla carta: una penna così e una carta colà, non penna e carta tout court. Voglio guardare i segni, voglio che la scrittura sia bella da vedere prima che da leggere, perché se è brutta da vedere sarà brutta anche da leggere; voglio il peso del quadernino nella borsa a ricordarmi che quello che incontro lo posso immortalare con l’inchiostro, liquido e tiepido che pare sangue tra le dita.

Io il desiderio spesso me lo perdo per strada, per pigrizia o per abitudine, e lo devo cercare nelle tasche nascoste, come quando scopri che fai l’amore ancora prima di sentirne il bisogno vero e vuoi tornare a ricordarti la necessità e la smania.

senza ricetta

Secondo me son capaci tutti*, di andare a fare la spesa e di comprare tutto quello che serve; poi tornare a casa e con il libro di ricette ben aperto sul ripiano di cucina, con la bilancina pronta all’uso, seguire passo passo le istruzioni per realizzare qualche piatto mirabolante inventato da chissà quale grande chef.

La cosa divertente, interessante, forse difficile ma senz’altro più  stimolante, è tirare fuori dal frigo quattro ingredienti strampalati e guardarli intensamente, annusarli, pensarli uno vicino all’altro e poi (a occhio, a naso, a sentimento) trasformarli in qualcosa di certamente commestibile ma, se possibile, anche gradevole al palato.

Non sono sicura che la metafora sia comprensibile, ma io oggi ho l’emicrania

 * si fa per dire. Quelli che non sanno tagliare una cipolla probabilmente non son capaci

Silvia, secondo me, non lo sa

Silvia è una persona che per raccontarla servirebbero delle parole inventate, o dei disegni, o delle risate, perché lei non ha misura, e ciò che non ha misura andrebbe descritto con una lingua senza limiti: una lingua che io non ho e non conosco.

Parla molto, Silvia, come se avesse paura del silenzio. Parla a voce alta e con una sorta di spudorata franchezza che potresti scambiare per mancanza di riserbo o per eccessiva disinvoltura, e invece cela una riservatezza tutta sua, un pudore che a me pare tenero perché è tutto il contrario del mio. Sembra che non abbia paura di niente ma poi certe volte la guardi negli occhi e la vedi indifesa.

Silvia riesce ad essere allegra e triste allo stesso tempo. Io quand’è così vorrei essere molto più grande, e vorrei che lei fosse piccola, per stringerla come si fa con i bambini che hanno troppe emozioni insieme. Credo sia per via di quelle tante emozioni insieme, che lei a quarant’anni ne dimostra la metà.

Secondo me Silvia non lo sa, che appena la conosci non te la scordi più: sarà per il sorriso, sarà per gli occhi.
Di che colore sono i suoi occhi non l’ho ancora del tutto capito, anche se li ho visti tante volte. Credo sia il colore di un tipo di mare; mare di scogli e di acqua fonda in cui hai paura di buttarti, all’inizio: io non sono una che si butta facilmente, però in quel mare lì mi son tuffata.

 

il titolo non c’è

Ci sono volte, a me succede, in cui le parole si fanno gommose e insipide come se fossero troppo masticate. Si appiccicano ai pensieri e li rendono inafferrabili, isolati in una bolla di elastico. Mi pare di vederli, i pensieri, dentro la bolla, traslucida e sottile: zitti, i pensieri, senza voce, imprigionati in una tela di ragno.

Allora, in quei momenti lì, anche la scrittura si fa sforzo e lavoro per te che di solito è leggerezza e respiro. Si fa cammino con le scarpe da montagna quando cercavi una passeggiata a piedi nudi lungo il fiume.

Io, e si vede, oggi mi sembrava di voler cantare ma mi sento la lingua legata e non lo so neanche, il perché.

non so se mi devo dare un pizzicotto

Una cosa che voi non potete credere è che in tutto quel che contenti, che allegria, mi piace la tua faccia, hai una bella voce, ti facevo più in carne, hai ragione a dire che sei nanerottola (e questa era per me); di tutto quanto la cosa che a me fa un piacere inestimabile e incredibile è che io questa cosa la vivo con lui e ne vedo solo i lati positivi

probabilmente male

agli amici del Gazzocamp, a quelli che non c’erano e ci son mancati, a quelli che la prossima volta, spero, ci saranno

 

Probabilmente male, ma lo devo scrivere, ché non lo so mica com’è che funziona.
 

 

 

Succede che sei lì in disparte; in disparte in senso metafisico perché fisicamente sei lì, e per niente in disparte, anzi sei proprio in mezzo, fisicamente. Non ti vuoi defilare, solo hai che ti sale qualcosa che assomiglia alla paura di non essere all’altezza, e allora non fai altro che abbandonarti a quello che ti viene più naturale: parlare poco, ascoltare di più, sorridere solo se ti viene, capire quello che riesci.

Una cosa che non hai mai saputo fare è sembrare quello che non sei, e in occasioni come queste tanto vale lasciarsi conquistare da quello che hai intorno, che ti può distogliere da quello che hai dentro. Quello che hai dentro non sai come chiamarlo ma è una cosa che conosci bene e che in tante occasioni ti ha reso le cose difficili.

Sembra impossibile che oggi, anche senza la corsia facilitante dell’alcool di cui intorno a te si sta facendo un uso allegramente socializzante, ti risulti estremamente semplice abbandonarti al flusso di sorrisi e parole, come se il blocco di ghiaccio che di solito ti si solidifica al livello del diaframma quando sei in mezzo ad estranei si sia squagliato nonostante la temperatura più primaverile che estiva.
Sarà la corrente di affetto, una sorta di inspiegabile movimento di energia, sarà la scoperta di fisicità inattese che in un lampo diventano familiari. Sarà che in uno sguardo trovi parole che non hai più bisogno di dire e amicizie che speri non finiscano lì.

 

 

 

tu quoque ovvero being ragazzetta inside

(il titolo in omaggio all’immenso zu e alla mia pastorella preferita sid)

 

La mia prima volta è stata nel 1985 e vista la giovane età posso dire con certezza che non ero del tutto cosciente di quel che stavo per fare. Avevo l’entusiasmo della novità e questo bastava: non sapevo che sarebbe stato amore a prima vista e godimento allo stato puro. Come capita spesso con queste cose, ero in vacanza, Dublino era bellissima e l’atmosfera irlandese quanto di meglio si potesse chiedere per un’esperienza più unica che rara.

Negli anni, poi, l’ho fatto altre volte. A Modena nel 1987, a Torino nel 2001, a Milano nel 2005 e poi ieri.

Io, quando mi capita, ho sempre e di nuovo diciassette anni. Mi piace il momento in cui la folla ti toglie il fiato; quello in cui i bassi ti sconquassano la pancia e pensi che non sai più quali sono i battiti del cuore e quali quelli delle casse; l’istante in cui entrano loro, ingigantiti allo stesso tempo dalle inquadrature impietose dei maxischermi e dagli sguardi indulgenti del pubblico.

Negli anni sono cambiate tante cose e allo stesso tempo non è cambiato quasi niente: il piccolo palco irlandese ha lasciato il posto ad architetture fantascientifiche che suppliscono con la loro spettacolarità a eventuali défaillances vocali del Figoseppurnanerottolo e però riescono anche a trasformare lo spazio e ad accorciare le distanze, come per magia. Paradossalmente si è tornati più vicini.

La voce che non è più quella di una volta ha acquistato una rochezza via via più sensuale con cui le si perdona qualche calo di intensità: la forza comunicativa è intatta e immutabile.

L’attacco di Sunday Boody Sunday continua ad essere stupefacente, devastante, doloroso e vale il prezzo esorbitante (credo, perché non l’ho pagato io) del biglietto. Decisamente. I diciassette anni tornano prepotenti e tu pensi chissenefrega se siamo tutti un po’ sciupati rispetto al 1985 e ti senti come se incontrassi un vecchio amante a cui guardi le rughe intorno agli occhi con la tenerezza dell’amore vero.

Poi c’è una cosa che invece è cambiata: rispetto ai diciassettenni, gli ultraquarantenni si fanno tantissime meno canne durante i concerti e per una volta non me ne sono andata con la testa dolorante, ché io sono allergica alle canne.

 

 

san siro il protettore delle groupies

Io, ecco, sarei abbastanza pronta. Cosa mi manca, ancora? Vabbè, devo riesumare uno zainetto e ficcarci dentro due panini e una bottiglia d’acqua. Poi un ripasso veloce, giusto per  non arrivare impreparata. Potrei dare una sbirciata alla scaletta ma poi, la sorpresa? Niente scaletta, si va così: senza scorciatoie. Quello che mi ricordo: bene; il  resto: un po’ si improvvisa, un po’ si tace.

Oggi vado. Poi vi racconto.

di capelli d’angelo o catene

Facciamo che io ero il foglio e tu la corda. Io e te facevamo un legame: un legame stretto o lasco, solido o effimero, evidente o invisibile. Facciamo che tu lasciavi la tua impronta su di me, leggera come una conversazione virtuale o profonda come una scopata senza ritegno. Facciamo che poi in certi casi tu non c’eri più ma mi restavi dentro, incastonato come un diamante e più concreto di un ricordo.

Il segno che mi hai lasciato mi ha fatta come sono, in una pagina di quelle che compongono il mio libro.

In lavorazione (untitled yet):

fettuccia piatta

fettuccia piatta

rete di nylon

rete di nylon

filo di carta spinato intruso

filo di carta spinato intruso