prezioso

Qualche giorno fa ero con un bambino che tenevo per mano: cercavo di evitare che cadesse  saltellando da un gradino all’altro di un muretto, mentre io camminavo vicino a lui sulla strada. Il muretto era più interessante della strada e lui saltava dai gradini, troppo alti per lui, confidando sulla saldezza della mia mano. Io lo pensavo molto concentrato sui salti finché a un certo punto mi ha detto: “Vedrai che capirai, Chiara!”

Lì per lì non ho intuito. Pensavo si trattasse del muretto, e dei salti. Gli ho anche chiesto spiegazioni, ma lui ripeteva la stessa frase, con quell’accento sul mio nome, Chiara, facendomi intendere che si trattasse di un’anticipazione che aveva deciso di accennare appena, per prepararmi a una scoperta, una rivelazione, una meraviglia.

Però quando ho visto, ho capito. E in questi giorni ci ho pensato ancora, a quel gesto generoso e delicato di dire senza dire, per lasciarmi l’aspettativa di un’emozione senza tuttavia rovinarmi la sorpresa. Mi è parso un regalo prezioso.

bambinoterapia

Archiviata, malvolentieri, almeno emotivamente l’esigenza di un terzo figlio, resta la mia fortuna oggettiva, quella di essere zia di bambino sotto i tre anni che ogni tanto c’è necessità di accudire, passeggiare, addormentare. Una cosa che chi non ha figli forse non sa che bellezza sia.
Nella luce di questa mattina in cui nulla avrebbe lasciato pensare che nubi atomiche, missili terra-terra, bombe di dubbia intelligenza potessero scalfire la nostra tranquillità, mi sono goduta la pace del silenzio interrotto da squittii di gioia olofrasica di fronte a un campo di margheritine prima, a una schiera di pecore, asini e capre poi.

Mi son goduta anche un abbraccio di gratitudine e un bacio schietto e ho capito che anche stavolta il mondo non avrà fine.

un gesto

Riconosco il gesto di una mano a cercare un’altra mano come il più familiare, tra una madre e un figlio.
La prima volta, il primo minuto, il primo istinto è stato quello di toccare dita piccolissime che presto avrebbero imparato a stringere. Per mille e mille giorni quante volte ci siamo cercati in quel modo non saprei dire, in un’abitudine quotidiana a chiedere sostegno, a dimostrare fiducia; ad alleggerire i silenzi più eloquenti e le paure più inconfessate.
Non ci siamo quasi accorti che la necessità di quel contatto, poi, si è diradata: la mano tesa meno urgente mentre imparavamo gesti più adulti, e parole piene.

Non so quando sia successo che è cambiato tutto, così in fretta: quando ieri la tua mano ha cercato la mia non era quella di un bambino che mi stringeva ma quella di un uomo che mi chiamava, per dire emozioni conosciute, con una voce nuova.

non sono una maestra

Non mi conoscono. Mi presento, li guardo tutti negli occhi sorridendo, chiedo i loro nomi. Alcuni sono nomi stranissimi che non riesco a ripetere. Ridono, quando sbaglio a pronunciarli, mi correggono divertiti perché a loro non sembrano difficili: sono i nomi dei compagni di scuola.

Sul tavolo rettangolare ho disposto il materiale con cui lavorare, li guardo guardare incuriositi senza immaginare come funzioni: appena vedono l’acqua gli nasce una domanda negli occhi. Spiego che sì, bisogna mettere le mani in acqua, per questo lavoro, ma più tardi. L’acqua è tiepida apposta perché a loro non dia fastidio bagnarsi, qualcuno non resiste e tuffa due dita nella bacinella, io faccio finta di arrabbiarmi: non si mettono le mani in acqua senza il mio permesso.

Ormai è tutto pronto e la pasta di carta sciolta in acqua; mostro loro come si fa, e so che sembra una magia. E’ sempre così, quando da un minestrone semiliquido esce un foglietto rettangolare. Faccio finta di essere una strega, che quella sia la mia pozione magica, loro si divertono a fingere di crederci.

Quando è ora di provare, i più timidi cercano di mimetizzarsi; le bambine, intraprendenti, hanno già tirato su le maniche. Qualcuno si rifiuta di lavorare perché non vuole bagnarsi le mani; io non insisto ma incoraggio, sperando che alla fine venga voglia anche a loro.

Questi bambini sono un fantastico campione di umanità. Ci sono i paurosi, gli ambiziosi, i secchioni, gli insicuri. I chiacchieroni, i timidi, quelli che sembrano timidi ma poi diventano estroversi. Le perfezioniste, quelli che hanno fretta di finire, quelli che vogliono fare da soli e quelli che vorranno sempre un aiuto. Li riconosco subito, e mi chiedo se crescendo cambieranno indole e modi, influenzati dalle mille esperienze della vita, o se assomiglieranno sempre ai loro stessi bambini.

Si lavora chiacchierando; mi raccontano vita, morte e miracoli dei fratelli, dei genitori e dei nonni. Io gli parlo dei miei figli, bambini grandi. Mi chiamano Chiara perché, dicono, non sono una maestra. Per tutto il tempo mi chiedo chi è tra di noi quello che si diverte di più, con questo gioco. Non so perché ma ho sempre il sospetto di essere io.

E intanto un po’ li ascolto e un po’ penso che mi manca avere dei bambini ancora piccoli, che si stupiscono con le magie; che mi conviene approfittare di questi bambini qui, che si innamorano di me dopo cinque minuti; che mi dicono Ti voglio bene, Chiara; che vanno a casa felici perché gli ho fatto scoprire una cosa nuova, e raccontano che abbiamo usato il frullatore per fare il minestrone viola.

talentuosa

Tra le cose che uno sa fare bene ce ne sono alcune di importanti e altre di ridicole.
Per esempio io sarei bravina nella pratica in disuso del punto croce, e questa non è un’attività fondamentale, ragione per cui la considero in disuso.
Tra le cose importanti che so fare bene me ne viene in mente, per la verità, solo una; ed è una specialità che non ho mai sentito nessuno che la menzionasse, penso di esser la prima, anche se non posso escludere che di norma non venga menzionata perché molti la considerano un’abilità secondaria, al contrario di me.

Tergiverso perché ho un po’ di pudore nel raccontarla, la mia abilità fondamentale, ché mi immagino che mi si venga a dire che è una scemenza, che son capaci tutti, di far quella cosa là: non è difficile. Non sarà difficile farla, ma farla bene è un altro discorso.

Io, ecco, lo dico: son bravissima a farmi toccare.

Dal mio innamorato: son bravissima; e son fortunata, ché lui ha due mani che sanno fare un sacco di cose, massaggiano i piedi, accarezzano, grattano la schiena e scompigliano i capelli come nessuno al mondo, io credo. Io do il mio contributo con la mia predisposizione all’abbandono, unica nel suo genere.
Dai miei figli: son bravissima. Loro hanno imparato in tenera età l’arte del raggomitolamento operoso, quello stato apparentemente inerte tra l’abbraccio e l’avvinghio che però ha un che di attivo che si rivela con un movimento di piede, di mano, di testa al momento opportuno. Io nel raggomitolamento mi ci trovo particolarmente bene, lo assecondo alla perfezione.
Dagli amici: son bravissima. Io in un abbraccio di amico mi tuffo proprio con entusiasmo, e non è mica da tutti, secondo me, bisogna esserci portati. E bisogna anche saper accorciare le distanze quando sai che l’amico ha della voglia ma anche del timore a toccarti, è qui che si vede la bravura, ché poi son capaci tutti di dire Son capaci tutti.
Invece no: di volta in volta farsi toccare una mano o la spalla o abbracciare in una morsa d’acciaio, si deve capire quando si può e quando non si deve. Pretendere: mai; chiedere: in silenzio; proporre: basta aprire le braccia.
Io, son bravissima.

Poi, non si sa come, è successo che altri ne hanno scritto. Domi, lo Splendido, Mitia, Laura,per il momento

ancora oggi a pensarci mi si strizza il cuore

I bambini iniziano presto a baciare. Mio nipote a dieci mesi sbaciucchia con intenzione quelli che ama, e mi ricordo i miei figli, con quelle labbra bavosette che si avvicinavano alla mia bocca (i bambini non baciano sulla guancia fino a quando non glielo insegnano, secondo me) e ancora non sapevano fare il gesto, ma la bocca aperta era già un bacio, non so se per istinto o per imitazione.

Quindi ti abitui presto, ai baci dei bambini, ché un po’ li baci tu e un po’ ti baciano loro, tutti i giorni, da subito.

Io però oggi pensavo al primo momento in cui ho avuto un moto di felicità che ho sentito esplodere in modo quasi rumoroso nelle orecchie, da quanto forte e improvviso e inatteso. Mi ricordo il pianerottolo appena fuori dalla nostra porta, io in ginocchio che aggiustavo la giacca a Riccardo, lui che si lasciava fare, contento della passeggiata imminente. Avrà avuto io credo un anno e mezzo, sì e no. E lì davanti alla porta, quel giorno, il suo primo abbraccio: non le braccia che si aggrappano ma le braccia che stringono, e la manina che accarezza e batte piano la spalla.
Una cosa che non si può immaginare, la bellezza.

Giovanni

Si addormenta con la testa sul mio braccio e la pancia contro la mia pancia.
Restiamo, lui a sperimentare la fiducia, io a godermi l’abbandono. Conto respiri che cambiano con i sogni e accumulo il calore di un corpo che ha l’energia di un germoglio. Guardo ciglia chiarissime e annuso una pelle trasparente.
“Insuperabile”, penso.

vere divagazioni (scrivo, non muoio, ma non sono io)

Io non lo so davvero, come faccia: prende in mano uno strumento ed è come se l’avesse sempre conosciuto. Oggi ha chiesto:” Posso suonare la chitarra?” “Sì”, ho risposto io. Non si sapeva nemmeno come accordarla, una chitarra, mai stata capace di suonare niente, io; abbiamo dovuto chiedere a google: accordare chitarra. Cose che se non ci pensi non te le puoi nemmeno immaginare, ma c’è un sito per accordare la chitarra: ti fa sentire la nota e tu la copi e la incolli sulla tua corda. Praticamente così: altro che diapason. Io ho pensato che avrebbe preso la chitarra per far finta, invece è lì che suona e suona davvero, cosa non si sa. Musica che non viene dalla memoria ma dalla pancia, la sua. Allora mi è venuto in mente che ogni tanto lo rimprovero, gli dico ma com’è che non cogli il gusto della scrittura, non ti vien voglia di cercare le parole, di inventare la tua lingua? E poi invece capisco, che le sue parole non son fatte di alfabeto, e che la sua lingua è suono. Io e lui non siamo uguali, mi dico. Invece siamo uguali, eccome, solo che ognuno ha il suo modo di perdersi nelle cose. 

Ecco che ha smesso con la chitarra, chissà se si è stancato di una cosa che non sa fare bene come vorrebbe, se gli è venuta voglia di pianoforte o di violoncello, che quelli li sa suonare meglio. Mi viene in mente quando, piccolino, inventava canzoni sul rumore della lavapiatti, in cucina; o quando è arrivato tutto contento a farci sentire che aveva imparato a suonare il pettine. Cosa suoni? Il pettine. Non si è mai sentito. Eppure, lui, è capace. Con la naturalezza di quello che ha capito il segreto del cosmo, e cioè che qualunque cosa è musica.

write or die, provato con angoscia

nostalgia preventiva

Me lo devo ricordare, questo piccolo gomitolo di gioia, io e il mio amore come i fidanzati, accoccolati sul divano a spartire momenti di intimità calda e condivisa. Soli e felici di esserlo, me lo devo ricordare perché non lo so, per quanto ancora si potrà essere noi in questo modo: noi io e te, che quando eravamo una persona sola mi sembra allo stesso tempo un secolo e un attimo fa. Non so quanto tempo ci resta perché tra te bambino e te uomo c’è di mezzo un battito di ciglia.

il confine del mondo

Cento metri, scarsi, sono quelli che fanno la differenza. Tra un bambino che deve essere accompagnato davanti alla porta di scuola e quello che vuole mostrarsi grande e indipendente e autonomo. Poco importa se uscito da scuola dovrà tornare a casa a piedi da solo, arrivare alla fermata dell’autobus o, appunto, percorrere cento metri scarsi per aspettare la mamma all’ angolo. L’ angolo, a cento metri, è il confine del mondo.

Lorenzo lo guardo dallo specchietto, quando gira l’angolo. Fiero; seguito a vista dalle maestre, ne sono certa; spesso accompagnato da mamme altrui, spaventate da tanta libertà. La cartella gialla, il suo colore, lo annuncia come uno squillo di tromba, quando arriva.
E mi vien da sorridergli, per forza, quando sale in macchina con l’aria felice di chi ha compiuto una grande impresa.