Perché il mandarino è un frutto assai snobbato, di questi tempi. Il colore slavatino e opaco non ha nulla dell’arancio lubrificato brillante che splende dalle cassette dei mandaranci garantitisenzasemi di tutti i fruttivendoli, mercati e supermercati del Paese.
Già, perché la sfiga massima del mandarino è la quantità di semi che contiene: se non lo vedi non ci credi.
Io, comunque, i mandarini li compro perché ci devo fare la marmellata. I semi servono, per la marmellata. In quattro e quattr’otto li metto da parte in una tazza d’acqua, e faccio a pezzetti il resto. Quando dico “il resto” intendo tutto: scorza e polpa. Il bello degli agrumi è che per farci la marmellata non devi nemmeno sbucciarli.
Le nonne raccomandano di usare pentole che non siano di alluminio. Io pignatte di alluminio non ne ho, vado tranquilla: aggiungo lo zucchero alla frutta, metto il coperchio e vado a letto.
Quando la mattina scendo in cucina, mi accoglie un profumo che sa di infanzia, di giorno della Befana, di caramelle di zucchero, di gelatine di frutta, di dolci che i bambini di oggi forse non conoscono, poveri loro. Aggiungo l’acqua in cui sono stati a bagno i semi e accendo il fuoco. Dopo una mezz’oretta, devo ammetterlo, nell’aria aleggia un odore che sa vagamente di farmacia; ma io porto pazienza, lo so che è solo una fase transitoria. Infatti, nel momento in cui la marmellata è cotta, l’aroma del mandarino è tornato la delizia che deve essere e riempie la cucina di promesse.
Lo senti, tu che leggi, quel pizzicore sulla punta della lingua? Questa, lo sai, non è una marmellata qualunque: nel vasetto trasparente ha il colore del sole di agosto, e ti chiama come l’estate per un appuntamento mattutino su una fetta biscottata o un pezzetto di pane caldo.
Acidula, dolce e lievemente amara, ti lascia in bocca l’allegria della sorpresa anche in una giornata d’inverno grigia come la tristezza.