della formidabile attrazione che provo per i luoghi satanici

So di aver già detto e scritto da qualche parte che non son portata per lo shopping. L’atto di comprare di per sé non mi dà alcun godimento, provarmi i vestiti non mi piace, scarpe ne compro poche perché alla fine ho addosso sempre le stesse. Le borse sono contenitori di cui mi importa pochissimo, le cinture mi sevono unicamente se ho i pantaloni troppo larghi, quindi quasi mai.  Ho dei problemi certamente con le librerie perché lì si innesca un meccanismo perverso per cui il desiderio si fa pungente e il richiamo delle sirene irresistibile. Spesso dalle librerie mi tengo alla larga apposta perché sono sicura che ne uscirei ricchisima ma povera.

Poi ci sono due negozi che per me sono i luoghi del demonio, dei posti in cui potrei tranquillamente passare il pomeriggio anche se so che non mi serve niente perché sono posti in cui tutto, anche quello che non sai bene cosa sia, diventa potenzialmente una cosa utilissima. Questi luoghi del demonio sono le mercerie e i negozi di ferramenta.

Nelle mercerie io ho sembre bisogno di tutto anche se non ho necessità di niente perché nel mio luogo di lavoro ideale ci sono dei metri di filo, spago, corda, nastro, di qualunque tipo e colore e materiale. Perché non si sa mai quando ti viene voglia di usare quelle cose lì. Per non parlare dei bottoni e degli aghi (io sono sempre alla ricerca di aghi) e dei pizzi e dei pezzi di stoffa, di feltro, di garza, di fodera. Un po’ tutto all’insegna del “non so a cosa mi serva ma mi serve”.

Nei negozi di ferramenta è uguale. Comprerei tutto: legnetti, colle, colori, vernici, pezzi di ferro che non so a cosa siano adatti, attrezzi che non ho mai visto in vita mia. È evidente che qualunque cosa ha un uso proprio e anche uno improprio ed è proprio dell’uso improprio che io tendo istintivamente ad appropriarmi.

È incredibile che non sappia usare un trapano e nemmeno una macchina da cucire: anzi più che altro è un peccato perché li vorrei. Quasi quasi me li compro.

ci fosse una volta che un cane riesce a prendere una farfalla

Due su una panchina, spalla a spalla, guardano un cane che rincorre una farfalla cavolaia.

– Che lavoro è che fai?
– Diciamo impiegato di concetto
– E dov’è che lavori?
– A casa mia, in poltrona. Qualche volta anche qui al parco. Sotto la doccia sempre.
– Non ho ben chiaro, di cos’è che ti occupi?
– Di pensiero
– Ah, tipo filosofo!
– No, diverso.
– Non ho capito
– Produco pensieri positivi
– Tipo?
– Tipo che se stai male io spero che tu stia presto meglio, se hai perso il gatto mi auguro che lo ritrovi entro sera. Cose così.
– E…?
– E basta.
– Ma ti pagano?
– No
– Stai tutto il giorno a pensare gratis?
– Non son cose che si fanno per denaro
– E a cosa serve?
– A produrre energia pulita
– Per le lampadine?
– No
– Al posto della benzina?
– Nemmeno
– E allora?
– Allora niente: energia cosmica
– Ah, ho capito.

La farfalla scappa, il padrone mette il guinzaglio al cane, i due sulla panchina fissano il vuoto. Uno dei due pensa e tace. L’altro tace e basta.

del prato all’inglese come metafora di quel che vi pare

È la terza primavera di questo giardino. Oggi ho guardato l’erba, che sarebbe decisamente da tagliare: la bella stagione è arrivata prepotente, quest’anno, e in dieci giorni la crescita è stata rigogliosa.
Una cosa che risulta molto evidente nel mio giardino è che in tre anni l’erbetta, che all’atto della semina era di una qualità scelta con consapevolezza, un’erba bella verde e calpestabile abbastanza, resistente agli inverni freschetti e alle estati calde, si è imbastardita con mille altre specie di piante erbacee, con o senza fiori, con foglie lunghe o tondeggianti, puntute o zigrinate ; gramigne, pratoline, tarassaco, trifoglio e quant’altro.
Se il giardiniere Maurizio, colui che all’epoca seminò erba e piantò siepi, arrivasse oggi, lo prenderebbe come un affronto, come il segno che non ci siamo presi cura a dovere del (suo, nostro) giardino. Proporrebbe una specie di pulizia etnica sotto forma di disseccante/diserbante per ripristinare la purezza della razza erbacea e l’aspetto pulito e ordinato che ogni praticello che si rispetti dovrebbe avere.

Invece io stranamente, lungi dall’essere infastidita dall’imbastardimento, ne vado quasi fiera. Mi sembra che sia nella natura dell’erba mescolarsi con le altre erbe, che sia nella giustezza delle cose che il vento porti semi, che gli insetti mescolino pollini, che il giardino muti di giorno in giorno e di anno in anno e che noi non abbiamo il potere né l’interesse di fermare il cambiamento. Allora si strappano le erbacce troppo soffocanti cercando di contenerne l’invadenza, si va di tagliaerba ogni volta che si deve per tenere a bada la crescita; l’imbastardimento è anche fatica ma va accettato per quel che è: ciò che rende il giardino una cosa viva e striata di tanti tipi di verde punteggiato di fiori piccoli tra cui nasconderti, se sei insetto; pisciare, se sei cane; riposare gli occhi, se sei uomo.

roba che non ha un titolo

Il tempo dopo le sette e mezza e prima delle otto di mattina è una specie di limbo, in cui fare quello che mi piace: non mi vede nessuno. Non è affatto raro che mi rimetta a letto quella mezz’oretta a rileggere le pagine che il sonno mi ha confuso la sera prima; che mi raggomitoli sul divano a leggere i post nuovi (nuovi di ieri); che mi metta a scrivere mail che la notte mi si sono composte nella testa, risposte che rimandavo, saluti veloci che verranno letti più tardi.
Mi piace sapere che gli altri a quest’ora sono in bagno, in macchina, in treno, stanno accompagnando i bambini a scuola o magari (i fortunati) dormono ancora. Io, dal limbo, penso a un sacco di persone: è davvero il tempo del silenzio e della pace, questo. Poi, alle otto, ci si mette in moto, si accende la radio, il silenzio svanisce e la quiete dei pensieri anche.
Ma domani ci si ritrova qui, alla stessa ora.

incagliata

Mettiamo che in un certo momento hai voglia, più ancora necessità – se non fosse che a dire necessità ti senti vagamente pretenziosa ma in effetti è così che la avverti, una cosa quasi necessaria – di fare una cosa, per esempio una creatura. Ce l’hai abbastanza già nella testa, i colori sono già decisi, sai come vuoi che non sia ed è già un inizio, ma poi esattamente non ti viene come iniziare. Sono le volte in cui hai paura di deluderti da sola, di partire da un’idea che a te pare bellissima e di rovinarla miseramente. Poi lo sai che, quando capita, quell’idea la elimini per sempre e ti dispiacerebbe, eliminare questa. Insomma magari hai preparato tutto, le vaschette con gli impasti colorati davanti agli occhi ma non ti partono le mani. Bisognerebbe allora andare in un museo e guardare cose che non c’entrano con te. Distrarsi ma senza allontanarsi. Creare una via di uscita per quell’idea che è rimasta incagliata da qualche parte, solo che oggi, tu, andare in un museo non puoi.

E allora.