non è un post

Il negozio è lì da quarant’anni, in una viuzza defilata del centro: lo conoscono tutti, in città.
C’è un viavai continuo, al negozio, tutti i giorni, ma non c’è mai fila, perché il signor Giovanni conosce bene la sua merce e capisce al volo le persone, gli basta un attimo per servirle al meglio: nessuno è mai tornato per un reclamo.
Ha anche molti detrattori, il signor Giovanni: dicono che vende acqua fresca e si arricchisce alle spalle di chi soffre. Lui sa di queste voci ma non ci bada perché crede nel suo lavoro: ha ereditato il negozio da una zia che gli ha insegnato tutto, ed è pensando a quella vecchia zia che alza la serranda tutte le mattine alle nove in punto e aspetta il primo cliente, che in genere non tarda ad arrivare.

La signora ha aspettato un po’ prima di entrare, lui se ne è accorto. Sperava di trovare il negozio vuoto e invece oggi i clienti stanno arrivando numerosi: è per via della pioggia, del primo freddo della stagione. Col freddo è sempre più difficile essere spavaldi.
La signora entra sulla scia di una ragazza con un cappottino blu e discretamente dà un’occhiata alla bottega che somiglia a una vecchia farmacia o a una drogheria, gli scaffali di legno stracolmi di vasetti di vetro pieni di quelle che sembrano caramelle, o confetti, o gelatine di frutta. La signora è titubante ma appena la ragazza esce, si avvicina al bancone.

“Mi scusi: ma è vero che Lei vende coraggio?”
L’uomo sorride, pare contento della domanda. “No, signora, il coraggio non si vende. Il coraggio ce l’abbiamo tutti solo che alcuni ce l’hanno in superficie, altri lo devono trovare sotto gli strati. Lei lo sa, vero, signora, che siamo fatti a strati. Come le cipolle. Se uno ha il coraggio sotto la prima pelle, quella secca che si toglie via facile, è fortunato. Se ce l’ha nascosto nell’ultimo strato, quello dove si fa il germoglio: allora lì è più dura tirarlo fuori”
“E allora Lei cosa vende, esattamente?”

Giovanni non fa in tempo a rispondere perché entra un uomo teso, nervoso, che ha l’aria di aver dormito pochissimo. “Hai qualcosa per me, Giovanni? Sento che non ce la faccio, da solo. Ho un colloquio di lavoro e se non mi va bene questa volta è finita”
“Finita, finita, cosa vuoi che sia finita, dici sempre così. Per prima cosa vai a farti la barba, poi tira su la testa e respira bene due o tre volte con la pancia. Con la pancia, ricordati. Ti do anche lo sciroppo, ma prendilo una volta sola, più di una volta non ti serve, capito?” e tira fuori la boccetta di sciroppo con un’etichetta ingiallita e una grafia antica che dice: estratto di leone.

Appena l’uomo esce Giovanni spiega “Non è mica di leone, sa, l’estratto, anche se sull’etichetta c’è scritto così: lo sanno tutti che son le leonesse quelle che hanno il coraggio”
La signora sta per rispondere qualcosa ma entrano due bambini. “Cosa succede, ragazzi? La maestra interroga, domani?” “Geografia” rispondono loro, in coro.
Giovanni si arrampica con la scaletta per prendere il barattolo più alto di tutti, pieno di palline gialle e rosa: ne infila alcune in un sacchettino di carta bianca con le stelle dorate, i bambini lasciano dieci centesimi sul bancone e escono allegri.

“Estratto di leonessa in palline? E costa così poco?” domanda la signora, curiosa.
“Macché, macché, loro son le mamme che li mandano, ma non hanno mica bisogno di niente. Capita che facciano una scena muta all’interrogazione una volta e subito le mamme in affanno per l’agitazione, ma non è mica patologico: è la vita, quella. Gli do quattro zigulì che son buone e anche le mamme stanno tranquille, ma a quell’età il coraggio bisogna solo coltivarlo un giorno alla volta, gli strati son morbidissimi: ha presente, signora, le cipolle novelle?” e continua “Io ci tengo, sa, alla mia etica professionale. Non distribuisco mica rimedi inutili. Ho studiato tanto per riconoscere quelli che hanno bisogno. Lei, per esempio…”

La donna arrossisce all’istante mentre la porta cigola appena e lascia entrare un ragazzo giovane, giovane, gli occhi lucidi come di febbre, le mani che non stanno ferme, il batticuore che si indovina attraverso i vestiti.
“Devo parlare a una ragazza che mi piace, non ho mica il coraggio”
Giovanni lo guarda bene. “È la prima volta, vero?” Non aspetta neanche la risposta e prende un foglio di carta quadrato, rosso da una parte, a disegnini minuscoli dall’altra. “Adesso fai come ti dico” e con calma gli insegna le pieghe: le mani impazienti si quietano nella concentrazione dell’origami, gli occhi si asciugano nello sforzo di esser preciso. “Questo glielo regali appena la vedi” dice Giovanni controllando la stella di carta colorata. Poi gli porge un tubetto lungo e stretto. “Pare dentifricio” dice il ragazzo
È dentifricio” ribatte Giovanni. “Lei avrà voglia di essere baciata, tu avrai voglia di baciarla, non sia mai che ti rovini il coraggio solo perché non hai i denti puliti. E adesso corri, non ti serve altro”

La signora aspetta ancora il suo discorso lasciato a metà. C’è silenzio, nel negozio. Fuori, la pioggia che batte, fortissima. Lei si domanda quale sia il suo rimedio, in quale strato sia il suo coraggio, se Giovanni l’abbia già capito, solo guardandola. Le piacerebbe che fosse un coraggio da zigulì ma sa che invece l’ha nascosto per bene in questi anni, che forse le serve l’estratto, per le cose che deve fare lei, difficili.
Giovanni le legge i pensieri e dice “Guardi che non glielo do, lo sciroppo”
“Ma io devo partire, cambiare, come faccio a partire se ho paura del mondo, se non ho mai fatto un viaggio, prima; come decido dove, e come lo trovo, il coraggio?”
“Come le piacerebbe che fosse, il suo viaggio? Di cosa dovrebbe sapere, per essere perfetto?”
“Dovrebbe avere il profumo di un orto aromatico: l’odore di quando passi le dita in un’aiuola di menta e salvia, lavanda e rosmarino, con un’idea di timo, una parvenza di melissa. E sapore di zenzero fresco e agrumi: pompelmo e mandarino”
“E il colore? Di che colore lo vuole, il viaggio?”
“Vorrei un viaggio di verde e di blu, ma verdi e blu mischiati, che non si capisca dove inizia il blu e finisce il verde”
“E i suoni? E il vento?”
“Musica di giorno e silenzio di sera, e rumore del mare, sempre. Mi han detto che è bellissimo, il rumore del mare. E notti tiepide e mattine fresche, da aver la voglia di coprire le spalle con uno scialle o con un abbraccio”

“Giovanni le allunga una scatolina turchese che ha tirato fuori da un cassetto. “È
da aprire quando comincia il suo viaggio” dice. “È indispensabile per il suo coraggio che, lo vede anche Lei, è incastrato proprio lì dietro agli occhi, nel punto esatto dove partono le lacrime”
La signora è contenta, temeva di non trovare la sua cura, si sente già sollevata, più coraggiosa:
“È proprio vero che il signor Giovanni è bravissimo, nel suo lavoro” pensa.
Uscita dal negozio corre direttamente in stazione, prenota un treno che la porti lontanissimo, a lei che non si è mai mossa da casa in vita sua, e due giorni dopo si trova lì, sul treno, spaventata ma anche allegra perché alla fine è partita, tutti le dicevano che non sarebbe riuscita e invece poi l’ha trovato, il coraggio; si vede che la scatolina di Giovanni ha funzionato.
La scatolina è ancora lì, dentro la borsa, adesso che il treno è partito è ora di aprirla: c’è dentro un cioccolatino quadrato fondente.

È buonissimo

una storia abbastanza commovente senza Topolino

Non è possibile. Non è possibile che di tutti i momenti. Che di tutte le ore di tutti i giorni di tutti i mesi di quest’anno abbia scelto proprio questa, dopo – quanto sarà? – sei o sette mesi. Sei o sette? Sei, era luglio. No, era giugno, faceva un caldo boia ma c’erano le ragazze con lo zainetto, sul’autobus: mi ricordo che abbiamo detto cheppalle, andare a scuola con questo caldo. E adesso, dopo sette mesi, proprio oggi, non si può, non si può. E poi cosa facevo? Le dicevo, no, guarda, passa un’altra volta; così correvo il rischio di rivederla tra un anno, sapendo com’è fatta. No, questa adesso arriva e io sai che figura. Spalanco la finestra? Ci saranno dieci gradi sotto zero… beh, magari dieci minuti, giusto per. Intanto mi lavo i denti. Mia nonna mi ha detto che con la salvia… ma dove cazzo la trovo, la salvia, adesso? La salvia una domenica sera di gennaio, è piena la città, proprio. Vabbè, faccio col dentifricio. Magari due volte. Anche tre. E la lingua, la lingua poi pizzica ma nei film lo fanno sempre, di spazzolarsi la lingua. (Speriamo bene). Mi cambio anche la maglia, va’. (Speriamo bene). Cazzo, la finestra, qua se non la chiudo entrano i pinguini. Ok, calma, sangue freddo. Può anche essere che sia raffreddata, è pieno di influenza che gira. Magari è raffreddata: accendo il camino, le faccio un tè. Speriamo che sia raffreddata, magari non troppo. Giusto un po’. Cazzo, eccola, non c’è nessun altro che suona il campanello in questo modo, non è driiin ma è drin, cazzo che bello che è sto drin, era un pezzo che non lo sentivo. (Speriamo bene).

Ecco, lo sapevo. Apro, lei è già lì che sorride, fa un passo, si blocca. Cosa faccio, cosa faccio, cosa faccio? Dico ciao. “Ciao” Lei sorride ancora ma dice: “C’è odor di gas, senti che roba” (è raffreddata, se pensa che sia il gas). “Non è il gas, è la bagna cauda” devo avere l’aria di un cane bastonato, lo vedo dalla sua faccia: divertita. “Sono sette mesi e tre giorni che non ci vediamo e tu proprio oggi dovevi mangiare la bagna cauda?” fa lei, mentre fruga nella borsa e mi allunga una specie di caramella. Ne mangia una anche lei. Adesso sorride forte, me l’ero quasi scordato di quanto bella è quando sorride, mi guarda fisso negli occhi (neanche male questa caramella, sa un po’ di menta e un po’ di sapone tipo quella roba indiana che non mi ricordo mai il nome) e adesso mi guarda fisso le labbra, sai come quando hai voglia di baciare una, che non riesci a staccarle gli occhi dalla bocca. (Sento di avere una paralisi). “Sai, sono stata a pranzo da mia madre, mi ha fatto la pasta col pesto, ho dovuto mangiarla” dice lei, e adesso mi bacia (ha un bel coraggio questa donna) ed è vero che ha mangiato il pesto perché anche lei sa di menta e sapone e aglio. “Sembra che tu abbia masticato un topo morto ma disinfettato” mi dice ridendo. “Tu solo un topolino moribondo” le rispondo. E adesso basta, baciami e togliti il cappotto e stiamo zitti che sono sette mesi, cazzo.

 

con molti ringraziamenti allo zio bonino

di necessità e di smania

La scrittura,  trovo che sia un po’ come il sesso: la ragione principale per farlo è il piacere personale prima ancora che quello altrui (lo so, sono egoista) e invece capita anche, qualche volta, per abitudine o per senso del dovere.

Io da qualche giorno non ho più il mio netbook, che era il mio cordone ombelicale con la rete.
In casa per la verità ci sono due computer: un notebook figo, che però è dello Splendido, e una ciofeca che va a manovella, che è dei bambini. Io li posso usare, quando mi serve, ma non è come avere il Piccoletto di fianco, acceso giorno e notte (si fa per dire: io di notte dormo), solo mio, con le mie password memorizzate ché tanto nessuno oltre a me lo usa, con il plin plon della posta in arrivo.

Lo Splendido mi ha detto dài che ne prendiamo un altro; io sto temporeggiando e lo so che sembra incomprensibile, ma è per via del desiderio.

Io, quando non avevo il Piccoletto giravo con un taccuino in borsa, e guai a dimenticarlo a casa. Magari non avevo accesso a un pc per ore o per giorni e la scrittura era necessaria e improcrastinabile. Nel taccuino ci finiva un po’ di tutto: frasi finite, parole solitarie, pezzi interi con un capo e una coda, che restavano in attesa prima di finire in un post, in una mail o in una lettera d’amore.

Questa abitudine bella l’ho persa, con la comodità di una tastiera sempra a portata di mano. E sarà per via del fatto che sono una tipa all’antica, ma quel desiderio lì, impellente, di scrittura, lo voglio di nuovo. Voglio la penna che scorre sulla carta: una penna così e una carta colà, non penna e carta tout court. Voglio guardare i segni, voglio che la scrittura sia bella da vedere prima che da leggere, perché se è brutta da vedere sarà brutta anche da leggere; voglio il peso del quadernino nella borsa a ricordarmi che quello che incontro lo posso immortalare con l’inchiostro, liquido e tiepido che pare sangue tra le dita.

Io il desiderio spesso me lo perdo per strada, per pigrizia o per abitudine, e lo devo cercare nelle tasche nascoste, come quando scopri che fai l’amore ancora prima di sentirne il bisogno vero e vuoi tornare a ricordarti la necessità e la smania.

Strani amori

Il Lungarno vicino al Ponte alle Grazie, quando piove.
Il giardino di Boboli quando era davvero un giardino, e potevi andarci a studiare.
Il ponte dell’isola Tiberina, dalla parte della sinagoga, che non so come si chiami.
Via del Portico d’Ottavia, chissà perché.
Piazza Navona la mattina presto, quando i turisti dormono ancora.
Rialto la sera tardi, quando i turisti dormono già.
Corso Palladio, quando poco dopo il tramonto guardi verso ovest.
La volta in cui, a Merzouga, ho visto l’inizio del deserto e ho pensato che non si vedeva la fine.
Noirmoutier, un po’ isola e un po’ no; un po’ oceano e un po’ Mediterraneo.
Quando, in vacanza con mia cugina, si arrivava ogni mattina in treno alla Gare du Nord e Parigi era tutta da scoprire.
Milano, il giorno che ho scoperto che certe volte c’è il sole anche lì.

Viene da sola, prende un po’ alla sprovvista; e mi lascia un poco stordita, appena appena incredula; e poi, quando passa, mette nostalgia, la nostalgia.

Horror vacui-Il Primo Post

Diciamocelo subito: un blog senza lettori è una cosa di una tristezza unica. Somiglia a un cappuccino senza schiuma, alla caponata senza sedano, al sesso senza baci: qualcuno addirittura li preferisce. Io, chiaramente, no.

Esistono diversi luoghi deputati alla scrittura, e alcuni possono davvero avere dignità anche senza un lettore. Penso ai diari, ai quaderni di appunti, alle lavagnette che uno tiene in cucina e dove annota la lista della spesa.

Poi c’è la scrittura destinata a un lettore privilegiato: lettere, e-mail, sms pensati e dedicati a qualcuno con cui vuoi comunicare. Quello che di sicuro leggerà quello che scrivi.

Il blog no: senza lettori, conosciuti o sconosciuti che siano, è una specie di messaggio nella bottiglia che invece di arenarsi su una spiaggia in attesa di essere raccolto finisce per incagliarsi in un angolo di scoglio e andare perduto.

Quando cominci non lo sai, se quello che scrivi lo leggerà qualcuno. Ti chiedi quali siano gli argomenti giusti. Valuti le parole con cui partire. E forse lo sai già in partenza, che il primo post non sarà quello che ti rappresenta; che servirà solo a rompere il ghiaccio.

E allora questo ghiaccio rompiamolo subito. Alla faccia di tutte le caponate senza sedano del mondo.