chissenefrega

Il mio lavoro (oddio, non è che si possa chiamare proprio lavoro, diciamo la cosa che mi appassiona) in questo momento è questo: prendo dei fogli di una carta che mi piace, la tingo con del materiale vegetale, la taglio a striscioline, la filo a mano con un fuso e poi provo a farci dei tessuti (provo perché non sono ancora brava ma da qualche parte bisogna pure iniziare). Il risultato per me è entusiasmante, non solo dal punto di vista estetico (che pure ha un suo perché) ma soprattutto perché l’idea di destrutturare un materiale di uso molto comune e con quello costruire un manufatto che abbia un aspetto familiare ma inatteso è una specie di magia, e mi piace che la magia avvenga tutta, dall’inizio alla fine – o quasi: la carta non la produco io – nelle mie mani.

Questa cosa mi sembra così ovvia che mostro a tutti i miei campioni e sono convinta che chiunque debba riconoscere l’incantesimo di questi pezzetti di tessuto dai colori tenui e polverosi che sembrano di lino, o di cotone grezzo, o di canapa, e non diresti mai di carta.

Ci resto sempre malissimo quando certi non capiscono. Una persona mi ha consigliato di tagliare a strisce una maglietta, così da fare più in fretta, con un filo più grosso (“Eh?“). Un altro mi ha detto che non ha senso perdere tutto quel tempo per fare una sciarpa che poi tanto uno la perde (“Ah, beh, allora“), e che il lavoro deve essere proporzionato al risultato (qui mi verrebbe da dire che il lavoro è assolutamente parte del risultato, il lavoro è talmente necessario al risultato che non so nemmeno come spiegarlo). Ci resto malissimo, ma solo per un po’ perché poi mi dico Chissenefrega, questa cosa sarebbe bellissima anche se non servisse a niente e a nessuno: il mio filo è sottile come un filo da ricamo perché è così che lo voglio, ci sono dentro tutti i pensieri che ci ho messo mentre lo filavo, in ogni imperfezione porta con sé il ricordo di un momento (non si vede ma io so che c’è), è del colore delle mie giornate, e forse diventerà qualcosa che adesso non so; ma soprattutto è solo mio.

Non ditemi che non ne vale la pena (se lo pensate, tacete).

canzone d’amore e confidenza

Di te mi piace che sei meno fragile di quel che sembra, e però allo stesso tempo di più.
Amo la tua illusoria leggerezza; la trasparenza e il suo contrario, la luce attraverso: sorpresa di filigrana.
La lingua che parli: scrocchio e fruscio; la tua insospettabile asciutta elasticità; l’odore che con gli anni si fa più legnoso, la flessibilità che diventa più ostica, come succede ai vecchi.
E che come certi vecchi inossidabili spesso tu riesca a non dimostrare la tua età.

Mi piace che tu dia confidenza a pochi: un giorno carezza di barbe, un altro ferita di taglio, a chi non sa come toccarti.
E che tu ti faccia arrendevole e malleabile quando ti piace e diventi puro nervo e tenacia quando vuoi.
So bene che ridi degli ingenui che non sanno prenderti per il verso giusto, ma io so come sei, conosco il tuo respiro.

È  la tua forza e la tua debolezza.

non sono una maestra

Non mi conoscono. Mi presento, li guardo tutti negli occhi sorridendo, chiedo i loro nomi. Alcuni sono nomi stranissimi che non riesco a ripetere. Ridono, quando sbaglio a pronunciarli, mi correggono divertiti perché a loro non sembrano difficili: sono i nomi dei compagni di scuola.

Sul tavolo rettangolare ho disposto il materiale con cui lavorare, li guardo guardare incuriositi senza immaginare come funzioni: appena vedono l’acqua gli nasce una domanda negli occhi. Spiego che sì, bisogna mettere le mani in acqua, per questo lavoro, ma più tardi. L’acqua è tiepida apposta perché a loro non dia fastidio bagnarsi, qualcuno non resiste e tuffa due dita nella bacinella, io faccio finta di arrabbiarmi: non si mettono le mani in acqua senza il mio permesso.

Ormai è tutto pronto e la pasta di carta sciolta in acqua; mostro loro come si fa, e so che sembra una magia. E’ sempre così, quando da un minestrone semiliquido esce un foglietto rettangolare. Faccio finta di essere una strega, che quella sia la mia pozione magica, loro si divertono a fingere di crederci.

Quando è ora di provare, i più timidi cercano di mimetizzarsi; le bambine, intraprendenti, hanno già tirato su le maniche. Qualcuno si rifiuta di lavorare perché non vuole bagnarsi le mani; io non insisto ma incoraggio, sperando che alla fine venga voglia anche a loro.

Questi bambini sono un fantastico campione di umanità. Ci sono i paurosi, gli ambiziosi, i secchioni, gli insicuri. I chiacchieroni, i timidi, quelli che sembrano timidi ma poi diventano estroversi. Le perfezioniste, quelli che hanno fretta di finire, quelli che vogliono fare da soli e quelli che vorranno sempre un aiuto. Li riconosco subito, e mi chiedo se crescendo cambieranno indole e modi, influenzati dalle mille esperienze della vita, o se assomiglieranno sempre ai loro stessi bambini.

Si lavora chiacchierando; mi raccontano vita, morte e miracoli dei fratelli, dei genitori e dei nonni. Io gli parlo dei miei figli, bambini grandi. Mi chiamano Chiara perché, dicono, non sono una maestra. Per tutto il tempo mi chiedo chi è tra di noi quello che si diverte di più, con questo gioco. Non so perché ma ho sempre il sospetto di essere io.

E intanto un po’ li ascolto e un po’ penso che mi manca avere dei bambini ancora piccoli, che si stupiscono con le magie; che mi conviene approfittare di questi bambini qui, che si innamorano di me dopo cinque minuti; che mi dicono Ti voglio bene, Chiara; che vanno a casa felici perché gli ho fatto scoprire una cosa nuova, e raccontano che abbiamo usato il frullatore per fare il minestrone viola.

si fa quel che si può

 

Flora ha un ex buchetto sul braccio destro, in alto, nel posto dove si facevano (si fanno ancora?) le vaccinazioni. Fosse solo per il buchetto: il problema è l’ex. Due volte ex: la prima volta, rattoppato alla buona con un pezzo di cartaccia e chissà quale colla, che ha lasciato un alone di grigiume tutto intorno; la seconda, richiuso con amore e pezzette di carta giapponese. Da me.

La guardo, Flora, la pelle bianchissima ma non bianca, su quel braccio lì: un bianco grigio ma anche leggermente avorio, con l’alone intorno al buchetto che non c’è verso di toglierlo, per via di quel bianco non bianco: prova tu a togliere il grigio dal bianco, proprio nel punto più bianco ma non bianco del braccio. Non si leva: si alleggerisce appena, con una passata di pastello prima bianco poi avorio, poi nero, un po’ dentro un po’ fuori ad alleggerire contrasti.

A me spiace, per Flora, avvolta dal suo velo trasparente: che mi verrebbe da sollevarlo appena, quel velo, a coprire la vaccinazione. Ma non posso.

 

 

p10201071

… e che Giulio Carlo non mi fulmini

Le canne non me le facevo nemmeno da piccola, in quell’età disgraziata in cui se non ti droghi almeno un po’, non piangi qualche ora tutti i giorni per un amore infelice e non litighi di continuo con un genitore qualunque vuol dire che hai dei problemi seri.
Posso dire a mia discolpa che comunque ho pianto tantissimo e litigato a sufficienza per ritenere di aver vissuto un’adolescenza normale.
La mia precisazione ha il solo scopo di tranquillizzare quanti saranno portati a pensare che questo post possa essere il frutto di un leggero condizionamento psicotropo.
Per noi, liceali negli anni ‘80, l’unico Giulio Carlo è lui: Argan. Quello dei libri verdi sui cui si studiava la Storia dell’Arte in bianco e nero. Già che ci sono, tranquillizzo anche lui, sperando che questo basti per mettermi al riparo dalla sua ira funesta: se Lei guarda bene, Giulio Carlo, io nei tag la parola l’ho messa tra parentesi, proprio perché la mia non è quella cosa lì che Lei cercava faticosamente di stipare nella nostra scipitissima zucca di studenti poco entusiasti (pietoso eufemismo). Solo che non sapendo come definirla, la parola l’ho presa in prestito, ma in minuscolo: vede? e con le parentesi. Così, giusto per capire di cosa parliamo, ma con la stessa differenza che intercorre tra scrittura e letteratura. Avrei potuto dire bricolage ma forse non si sarebbe capito.

La ragione per cui scrivo oggi è che mio marito, vedendo l’autoritratto, ha avuto un turbamento e mi ha chiesto se davvero io mi senta contorta come la linea in questione.
Quell’aggeggio, lì, nella foto, ha un titolo, “Confini”, che in effetti non è “Autoritratto“, e questo perché non ho capito subito che lo fosse, un ritratto. Adesso, però, ogni volta che lo guardo mi ci specchio e quindi lo è diventato. L’ho appeso alla parete e mi piace.

La carta è il mio mestiere e la conosco bene: siamo amiche. Capisco che soffre della sua condizione bidimensionale e allora ogni tanto le faccio riconquistare spessore: la lascio tornare materiale plastico perché la sua natura vera è quella, e io lo so. Mentre accarezzo la sua forma liquida sento che mi è grata e anch’io godo del contatto della pasta sulle mani.
Il filo ha una straordinaria e incontrastabile attrazione su di me. Compro gomitoli, rocchetti, matassine di qualunque colore e spessore e materiale. Metallo (spesso), lana e cotone, carta, spago, nylon. Il filo ha la forma del tempo, della strada, della melodia. Qui, del limite.
L’ago è quello che distingue la casualità dall‘intervento umano. E’ lavoro.
La tisana ha la funzione di un colore ad acqua perché volevo un effetto simile a quello che avrebbe sortito un acquerello, ma meno intenzionale (però l’ho scelta anche perché mi piace pasticciare). Il confine pare netto (linea) ma non lo è, ché se guardi bene il colore è sbavato: forse perché mi piacerebbe che le delimitazioni naturali si prendessero una rivincita sulla prepotenza della volontà umana.

Ho avuto sempre i miei piccoli problemi con i confini. Barriere mentali me ne costruisco troppe; le cucio come orli intorno alle mie paure.
Eppure dei confini geografici non ho mai saputo capire le logiche: dev’essere perché mi manca il senso dell’orientamento. Allo stesso modo, non colgo separazione tra le zone emotive che si vorrebbero distinguere in regioni diverse del cuore e invece fanno di me un unico, irrequieto paese.