di dove finisce tutta la creatività che mi farebbe comodo da sveglia

Stanotte ho fatto quel sogno classico in cui sei in bagno che fai pipì e ti accorgi che la porta è aperta e tutti ti vedono.

Per la verità sono al corrente del fatto che questo è un sogno classico dai racconti degli altri, perché io, in realtà, è la mia prima volta in assoluto; non faccio nemmeno mai quello in cui devi andare in bagno ma il bagno è chiuso/ è sporco/ è occupato/ è evaporato: un sogno che, a quanto pare, fanno più o meno tutti. Sogni di bagno, io, invece: pochissimi.

Solo cose intricatissime e surreali, invento, di solito.

Fare pipì per il mio standard onirico è troppo normale, secondo me.

come capire che stagione è dal profumo delle cose che mangi

L’ho deciso oggi, il modo per sapere con certezza se l’estate è finita o no.
Perché nelle stagioni mezze succede così, che si è un po’ di qua e un po’ di là, se un giorno piove credi che sia autunno inoltrato, se l’indomani fa bello ridiventa estate piena: noi ci fidiamo ciecamente del calendario e quindi il caldo estivo dopo il 21 settembre non lo capiamo tanto bene. Magari ci piace ma non lo capiamo.

Ordunque: se il pomodoro sa ancora di pomodoro e il basilico sul balcone ha le foglie; se a pranzo vai in sollucchero all’idea di mangiarti prima con gli occhi poi col naso e alla fine con la bocca quel tripudio di estate che è la caprese intesa come tipo di insalata fatta col pomodoro e la mozzarella e il basilico: allora non è ancora autunno. È quasi, ma non del tutto, autunno.

L’autunno comincia quando il vero profumo dell’estate, quello del pomodoro, finisce, e nei banchi di verdura cominci a trovare quei pomodori fatti di  nulla che odorano di roba verde incomprensibile cruda e insulsa e non hanno motivo di esistere.
Probabilmente quel giorno sarà domani ma oggi, ancora, no.

(io poi quelli che comprano i pomodori fuori stagione, tipo in dicembre, non li capirò mai. Ma ne parliamo un’altra volta)

siete voi che non capite

Intervistiamo per voi un personaggio chiave della vicenda che attanaglia l’opinione pubblica da un paio di giorni a questa parte. Essendo per chiari motivi sotto protezione lo chiameremo con lo pseudonimo La Talpa.

Signor Talpa, Lei è l’unico che sia a conoscenza di come si siano veramente svolti i fatti: vuole raccontarci com’è andata?

Ben volentieri: per amore di cronaca questo ed altro! Sono stato contattato direttamente dai servizi segreti: sa, avevano paura che gli americani arrivassero prima, quelli vogliono sempre arrivare prima: bastava che la CIA scoprisse qualcosa e con i mezzi che hanno loro ci avrebbero soffiato la scoperta. Era di vitale importanza che io rimanessi l’unica persona a sapere della cosa, infatti mi hanno detto: “Ci fidiamo solo di te. Devi fare un lavoro pulito e non parlarne con nessuno. Se hai bisogno di appoggiarti a qualche collega racconta una storia ma non fare parola del Progetto”. Io da parte mia ho cercato di fare poche domande, ho chiesto solo le informazioni essenziali: loro mi han detto che mi avrebbero portato con un aereo militare sul luogo dove doveva aver inizio la missione. Mi hanno dato le coordinate: 46°14′03″N 6°03′10″E

Ho cominciato da lì. Mi hanno detto che ci saremmo rivisti dopo un certo periodo in un altro posto, solo a quel punto mi avrebbero pagato per il mio servizio. Anche di quest’altro luogo mi han dato solo la collocazione geografica: 42° 30′ 26,64” N 13° 39′ 28,08” E

Posso chiederLe qual è stato il compenso per la missione?

45 milioni.

Apperò!

Guardi, in queste cose la professionalità è importante. Mica ci si può fidare  del primo venuto: io, modestamente, conosco il mio mestiere, e mi faccio pagare di conseguenza. Poi è anche vero che la galleria ha un diametro di pochi centimetri ma ha visto quanto è lunga? Dispiace che la gente non abbia capito, che quei quattro comunisti che popolano l’internet abbiano fatto della facile ironia: provateci voi, vorrei dire, a scavare per tutti quei chilometri: mi sono anche rotto tutte le unghie.

Non se la prenda così. Lei ha fatto grandi cose per il progresso scientifico in questo Paese. Deve esserne fiero.

Ecco, glielo dica, a quelli dell’internet.

e nonostante tutto non conoscevo la differenza tra la battigia e il bagnasciuga

Non so se l’ho già scritto da qualche parte ma una delle cose della mia infanzia e giovinezza che ho sempre detestato durante i pranzi cene e merende in famiglia era che puntualmente capitava che qualcuno avesse un dubbio su una parola. Poteva essere che mio padre tirasse fuori un vocabolo arcaico oppure anche solo vagamente desueto e qualcun altro chiedesse spiegazioni, oppure che si usasse un termine improprio, o straniero, o dialettale; un neologismo, una parola dall’etimo incerto,  un termine tecnico di cui gli altri commensali non conoscessero il significato o dubitassero della correttezza: ogni volta ne usciva una discussione infinita, ognuno si premurava di dire la sua sperando che alla fine del confronto si potesse fare un referendum, una votazione, un’acclamazione che ponesse fine alla questione. Invece l’ultima parola spettava sempre a mio padre il quale, senza nemmeno prendere in considerazione la possibilità di alzarsi dalla sedia, guardava una di noi e ordinava: “Prendi il vocabolario/dizionario bilingue/monolingue/etimologico/dei sinonimi e contrari; italiano/inglese/francese/veneto/spagnolo/tedesco”.

Il reparto vocabolari, abbastanza fornito, a casa dei miei è da sempre nella stessa libreria, in una specie di anti-anticamera a cui si accede salendo una rampetta di una decina di gradini, sufficienti a suscitare nell’adolescente medio un moto istantaneo di fastidio per l’incombenza più imposta che scelta. Un incubo quasi quotidiano.

Oggi a pranzo, a casa dei miei, a un certo punto (perché nelle famiglie le abitudini non cambiano nemmeno dopo decenni) parlavamo di libri elettronici e calligrafia e, non chiedetemi perché, qualcuno ha confessato di avere un dubbio sull’ortografia della parola grattugia. I veneti si sa che han problemi con le doppie.

Insomma, per farla breve, dopo che ognuno ha detto la sua, ho sentito la mia voce proporre:”Ma per essere sicuri cerchiamo nel vocabolario, dài!”
Mi sono alzata e ho fatto i dieci gradini che mi separavano dal reparto dizionari. Di mia spontanea volontà.

Sto inesorabilmente invecchiando.

della voglia di buttarsi a corpo morto in tutte le simbologie del mondo

Il melograno che Lei ha in giardino – vorrei dirgli – è di una bellezza che fa male agli occhi. I suoi frutti hanno il colore esatto della parola palpito. Trasuda fertilità e abbondanza come nessun’altra cosa io conosca; mette voglia di rubarli, quei frutti, ho già in bocca il sapore dei chicchi che, posso indovinare, scoppiettando tra la lingua e i denti fanno lo stesso rumore della pioggia sul bagnasciuga.

È un peccato – vorrei dirgli – lasciare che l’albero, seppur magnifico nella sua perfezione cromatica, resti a sopportare il peso dei frutti già maturi: ne approfitti, lei con la sua famiglia; goda per me dello scrocchio nello spezzare la melagrana, della freschezza umida dei grani di rubino, della dolcezza acidula del succo che ricorda giorni dimenticati e delizie desuete.

Oppure ne regali qualcuna a me, che saprei cosa farne: così, vorrei dirgli.

as time goes by

Per strada guardo la gente che si bacia. Lo so che sarebbe opportuno girare la testa, far finta di niente, ma a me la gente che si bacia piace e quindi la guardo.

La gente si bacia soprattutto fuori dagli uffici, fuori dalle scuole e sulle panchine dei giardini pubblici, ma anche spesso nelle piazze e più raramente sulle vie pedonali.

Ieri ho visto due che si baciavano alla fermata dell’autobus: si baciavano in un modo bellissimo perché erano molto giovani e solo i giovani si baciano così, in pubblico.
Lui era alto e stringeva la ragazza non solo con le braccia ma con tutto il corpo, la avvolgeva a proteggere il bacio come solo gli adolescenti sanno fare.
Mi son chiesta come mai da adulti quella cosa lì non si fa più, o almeno si fa così di rado che io, di baci adulti per strada di quel tipo lì, non ne vedo mai.
Ché non è, certamente, mancanza di passione, quella che mettono gli adulti nei baci in pubblico, piuttosto mancanza di abbandono totale, consapevolezza del mondo circostante: come se da grande l’amore non ti facesse più perdere del tutto la testa.

(Che peccato, però)

tu chiamalo se vuoi (inconsueto) ottimismo

Lamentarsi del tempo è uno degli sport più amati dagli Italiani e in maniera assoluta dal popolo della rete (me compresa) che, essendo perennemente alla ricerca di una cosa qualsiasi da dire, approfitta come spunto degli eventi meteorologici che comunque per definizione non mancano mai. Del resto bestemmiare le divinità è anche quello uno degli sport preferiti dal popolo della rete e la scelta di Giove Pluvio come dio da insultare in certe mattine è, anche per me, indubbiamente ineccepibile.

Stamattina sarebbe una di quelle mattine, fredda, grigia e umorale come solo il lunedì. Per molti probabilmente lo è.

Invece io sono allegra come un passerotto appena scampato alla prepotenza dell’acquazzone: non godo dell’aria repentinamente troppo fredda per i miei gusti ma confido intimamente che andrà migliorando, me lo sento sotto pelle; in qualche maniera avverto che l’autunno è ancora da cominciare e altre giornate tiepide, se non calde, arriveranno. Riesco a pensare solo che del sollievo ci voleva, dopo l’afa delle ultime settimane: innaturale, opprimente, appiccicosa.
Ho messo le scarpe chiuse e una maglietta con le maniche lunghe ma non per questo mi sento precipitata nelle rigidità dell’inverno.

Insomma non sbuffo ma approfitto della possibilità nuova di attorcigliarmi finalmente intorno allo Splendido per temperare un brividino di freddo verso l’alba, di regalarmi un biscotto con un tè caldo a mezza mattina, di stirare tre camicie senza doverne sudare sette, insomma tutte le cose che fino a ieri risultavano improponibili (soprattutto intrecciarsi come un’edera con lo Splendido, un’attività che d’estate mi è quasi sempre interdetta se non con intenti dichiaratamente erotici).

In pratica ho deciso che la bestemmia contro Giove non mi dava le stesse soddisfazioni. Vi consiglierei di provare il mio metodo (ma non con mio marito).

il gatto spiegato a chi non lo sa

Il gatto non c’è da stupirsi se è stato considerato una divinità dagli Egizi che erano un popolo che di divinità se ne intendeva: è un animale magico dotato di superpoteri, e solo chi non ne ha mai avuto uno o chi ci ha convissuto senza tuttavia entrarci veramente in sintonia può non rendersene conto.

Mio figlio sostiene che i gatti usano abitualmente il teletrasporto: a questo non riesco a credere seriamente anche se in un paio di occasioni ho avuto anch’io la stessa impressione. Ho preferito dare il merito delle improvvise apparizioni alle loro straordinarie doti di movimento silenziato e fluido, quasi impossible da captare da parte dei sensi ottusi degli umani.

La cosa innegabile è che il gatto possieda capacità terapeutiche e taumaturgiche. Chiunque abbia provato il sollievo al mal di pancia dato da un micio accoccolato sull’addome o il conforto di una strusciata di consolazione quando hai male al cuore non può aver dubbi sull’efficacia del metodo felino per la cura di numerose patologie.

Il gatto conosce la comunicazione interspecie alla perfezione. Parla con tutto il corpo: con gli occhi, con la coda, con il pelo, con la voce, con gli atteggiamenti e con la noncuranza. La noncuranza è quando decide di snobbarti volutamente e tu capisci che non è lui l’essere inferiore. A questo proposito, ho il sospetto che i gatti siano alieni, i veri marziani che da millenni hanno cominciato a colonizzare il nostro pianeta, non con la forza ma con la fascinazione.

Il gatto, poi, è dotato del più straordinario sistema di conquista al mondo: le fusa. Dopo averti scelto, accerchiato, lusingato con strofinate di muso, impastate di zampe, leccate di ruvidezza, se vuole farti per sempre suo appoggia il suo collo alla tua gola e ti ipnotizza col suo basso ostinato di ronronamento estatico, che non è solo musica ma vibrazione che assorbi come un balsamo contro tutte le solitudini.
Il gatto, sia ben chiaro, questo gioco lo fa per se stesso: difficile che intenda veramente coccolare te, umano. Del resto noi, quando affondiamo le dita nel pelo morbido della pancia del nostro gatto, è per far godere lui o per deliziarci del contatto col suo calore e la sua energia inspiegabile? È uno scambio di piacere, quello tra il gatto e il suo umano, fatto di grattini, di morsi per gioco, di unghiate impertinenti, di carezze vicendevoli, di sguardi (numerosi ed eloquenti), che giovano a entrambi.

Il gatto: c’è poco altro da dire. Frrr Frrr

la conclusione

Non sono, e non sono mai stata, una madre ansiosa, fatta eccezione per le prime due settimane di scuola, il momento dell’anno in cui riesco a concentrare in un groviglio di agitazione palpabile tutte le mie paure materne, e in cui devo fare uno sforzo immane per con contagiare la famiglia con le mie insicurezze e i miei timori.

C’è chi mi prende ancora in giro per l’aria semiisterica con cui mi aggiravo, negli anni passati, in concomitanza con le prime riunioni, a scuola, in palestra, in canonica o a scuola di musica, nel disperato tentativo di far coincidere orari e occupazioni, non di un figlio solo ma di due, abituati da sempre ad avere attività extrascolastiche impegnative, per loro e per me.

Quest’anno (lo dico perché non sono superstiziosa ma lo dico sottovoce perché non si sa mai) sembra che gli orari abbiano cominciato a incastrarsi alla perfezione da soli, come se non ci fosse bisogno di me e della mia fatica per organizzare spostamenti, scherma, violoncello, atletica, scuola e conservatorio, anche grazie al fatto che, orfani delle 15 ore settimanali di ginnastica, il tempo sembra improvvisamente dilatato e i pomeriggi lunghissimi.

Secondo me la conclusione è che 15 ore di ginnastica fanno le madri isteriche.