soprattutto non chiedetemi del contenuto del sacchetto

Una cosa che nessuno sa di me è che io, a mettere ordine, sono bravissima. Se sentite forte e chiara la sghignazzata di mio marito è perché sono una donna incompresa.

La verità è che sono davvero brava, solo che il mio ordine in genere dura un quarto d’ora, una mezz’oretta, a dimostrazione del fatto che l’universo tende naturalmente all’entropia. E chi sono io per smentire le leggi dell’universo?

Per sentirmi una persona migliore, in questi giorni di isolamento di cui ancora non si intuisce la fine, ho deciso comunque di riorganizzare (uno o due alla volta) gli sportelli della credenza. Non ho una cucina enorme, però i miei sportelli sono, lo ammetto, piuttosto caotici. Un po’ per colpa dell’universo, un po’ per colpa mia, un po’ perché anche se possiedo solo attrezzi da cucina indispensabili, gli attrezzi da cucina indispensabili sono tantissimi.

Ho dovuto scontrarmi con alcuni impenetrabili misteri del cosmo:

1. Esiste un luogo, un tempo, una dimensione parallela in cui si smarriscono i coperchi dei contenitori e i contenitori dei coperchi. Altrimenti non si spiega come mai nel mio cassetto dedicato risultino orfani dei loro compagni 18 coperchi e 4 contenitori di plastica. Uno lo si può buttare per errore nella spazzatura insieme alle bucce di patata, un paio dimenticare a casa di qualcuno (anche se io non porto queste cose in giro) ma 18 + 4 = 22 cosi di plastica persi per sempre sono un segno di qualcosa che non ho ancora ben capito.

2. Come sempre quando metti ordine, finisci per eliminare oggetti che non usavi da tempo, o per riesumare cose che avevi scordato e che dovresti restituire al legittimo proprietario. Questo – pensi – ti permette di avere più superficie libera per una nuova e diversa organizzazione degli spazi. AH, AH: ILLUSA!

3. Quando tutto è al suo posto e hai finito l’ultimo ripiano, ti volti e c’è un ultimo sacchetto di roba mista che non aveva e non avrà mai una collocazione.
Pensatelo ramingo, da un ripiano all’altro, da uno sportello all’altro, instancabile nel cercare uno spazio suo in mezzo a oggetti con cui non si identifica del tutto. Lo ritroveremo, uguale, tra qualche anno, la prossima volta che mi deciderò a sfidare le leggi del cosmo.

Quando sapevo scrivere

Oggi, per una ragione banale, mi sono trovata a rileggere un post (anzi due) scritto da me, qualche anno fa. Quando sapevo scrivere.

Come sia possibile che uno disimpari a scrivere io non me lo spiego. Voglio dire, non ho un tumore al cervello (almeno, non credo). Non ho avuto traumi che mi impediscano di farlo, e scrivere a me è sempre piaciuto un sacco. Sono stata una discreta grafomane negli anni dell’adolescenza e un po’ anche dopo, e ho tempestato stalkerato di lettere d’amore e di amicizia più di una persona (che probabilmente non disprezzerà il mio blocco attuale).
Gli “anni del blog” (sapete tutti quello di cui parlo, vero?) sono stati tra i più vivaci della mia vita per quanto riguarda le relazioni, e questo solo grazie alla scrittura, che ho vissuto sempre come la modalità di comunicazione che più si confà al mio modo di essere. Un modo non particolarmente estroverso, lo ammetto. Le parole io le trovo sempre con calma (qualche volta con grave ritardo), e la comunicazione orale non ha pazienza, vuole reazioni rapide, brillanti, sciolte. Io non le ho mai. Una volta incontravo risposte maturate nel silenzio di una pagina bianca (o a righe, o a quadri); addirittura nel ticchettio zoppicante della tastiera del computer. Mi piaceva, tanto. A volte forse ero brava. A rileggerle adesso mi pare che le abbia scritte un altro.

Da quando ho le mani piene – di attrezzi, di lavoro, di materia che mi appartiene – la testa è completamente vuota di parole da dire e del modo di dirle: il pensiero passa per le mani e diventa subito concreta espressione di un’idea. È così lontano dalla consistenza astratta della scrittura, questo modo di esprimere, eppure al tempo stesso timidamente simile alla poesia, che racconta senza spiegare e accenna senza rivelare. Più affine, forse, alla me di oggi, che accetta che non tutto sia palesato.

una questione irrisolta

Una cosa che mi chiedo da almeno trent’anni e un po’ è questa: l’empatia è una fortuna o una condanna? L’attitudine a condividere in modo viscerale le emozioni altrui ci rende più utili o solo più indifesi?

Me lo domando ogni volta che non riesco a impedirmi di tormentarmi o commuovermi – come se quella vicenda mi toccasse da molto vicino – per una foto, un racconto, un documentario, perfino un libro o un film frutto della fantasia di un autore particolarmente dotato per l’esplorazione dell’animo umano.

Quello che mi disturba è sentirmi perennemente in balia di emozioni che non so governare in generale, ma tanto più quando mi appartengono solo di riflesso. Mi coglie alla sprovvista qualunque sentimento che riconosco, e soffro e gioisco di continuo per i fatti miei e altrui e mi vergogno, e faccio fatica a mostrarmi, quando piango per la sofferenza di qualcuno o, non meno spesso, per la sua felicità.

Mi aiuterebbe sapere che tutto questo ha una funzione e un’utilità ma, al momento, non ne sono affatto sicura: il più delle volte, dopo che sto male per giorni per vicende su cui non posso influire in alcun modo, mi sento solo particolarmente scema.

per tutto il resto c’è il Toradol

L’ospedale è quel posto in cui il dolore, proprio e altrui, riempie il tempo e i silenzi. I silenzi in realtà non sono tantissimi, il tempo invece sì: quando sei malato o reduce da un intervento non hai molto da fare oltre ad aspettare, dormire e fidarti di chi ti cura. Io un po’ del mio tempo l’ho passato a riflettere.

Il dolore secondo alcuni non serve assolutamente a nulla e anzi va eliminato appena arriva o meglio: ancora prima. Per altri invece è una specie di prova di fede o di resistenza o di qualcos’altro e va sopportato in silenzo, o in preghiera, come fosse una benedizione o una medaglia al valore. Io per la verità, fino a ieri, non avrei saputo bene dove collocarmi perché se credo che il dolore non ti santifichi in alcun modo, credo anche che imparare a sopportarlo entro un limite ragionevole sia salutare, se non direttamente per il corpo, almeno per la mente. Lo dico da fifona.

In genere sono una che sopporta malissimo i suoi malanni, però almeno in questa breve parentesi chirurgica ho imparato molto su di me.
Lo ammetto, non ho sofferto un granché: l’anestesia è una delle grandi invenzioni dell’umanità, gli antidolorifici funzionano e le tecniche chirurgiche moderne rendono il tutto il meno pesante possibile. Ciò non toglie che di tanto in tanto nell’ultima settimana qualche dolore si sia fatto sentire.
Quando capita, di solito, le infermiere ti chiedono quanto male hai da zero a dieci e tu ti trovi a tirare fuori il metro. Io ho un metro doppio – come quello delle sarte, che da una parte è giallo e dall’altra è azzurro – da una parte ho il metro del dolore inutile (livello massimo, l’emicrania special edition: per fortuna è rara), dall’altro quello del dolore con uno scopo (livello massimo, il parto: nel mio caso, due volte nella vita). Il livello massimo è uguale ma la percezione, e il ricordo, diversissimi.

A un certo punto mi sono trovata a pensare: “Ma non vorrai mica davvero lamentarti per questo? Una cosa che sta al livello quattro, massimo quattro e mezzo del metro lato giallo? Ricordati dei dolori veri!”
Però questo dialogo di buonsenso tra me e me non funzionava, e allora ho capito che esiste un altro metro ancora: quello del dolore inutile E incomprensibile, che non sai se sia un buono o un cattivo segno, che non sei sicuro che si fermi o che aumenti, che magari non capisci perché ti viene, se non ti hanno spiegato cosa ti è successo e cosa devi aspettarti. Questo dolore qui è il meno sopportabile di tutti e certe volte vorresti essere drogato pesantemente per un mal di pancia con cui normalmente vai a lavorare senza fare storie; poi magari basta una parola che te lo spieghi, da parte del medico o dell’infermiera, e lui torna ad essere quello che è: un male passeggero che puoi permetterti di ascoltare per un po’ prima di decidere se sei in grado di gestirlo o no. Se non sei in grado di gestirlo devi fare in modo che non ti fagociti, e il ricorso alla droga pesante torna una soluzione del tutto ragionevole.

Il dolore inutile infatti, nel momento in cui ce l’hai, è la cosa peggiore che esista, perché ti ruba i pensieri, ti isola dal resto del mondo, ti impedisce di credere che ci sia qualcosa all’infuori di lui. Quando passa, però, lascia una scia di cose anche positive.
A me, per esempio, l’improvvisa consapevolezza del dolore degli altri. La gioia del pensiero di nuovo fluido. La bellezza della pace, mai abbastanza apprezzata quando si sta bene.
In questo senso, credo che un certo controllo sul nostro dolore, ogni tanto, farebbe comodo impararlo, con la certezza che non ci regalerà la vita eterna ma magari un po’ di forza, di fiducia in noi stessi, di empatia e di gratitudine sì.

ehilà!

Il primo vantaggio di avere dei figli grandi che ormai di tanto in tanto, almeno per alcune ore del giorno o della sera, lasciano il nido, è che finalmente in certi frangenti puoi fare un po’ di rumore.

Così poi capita che ti accorgi di aver lasciato tutte le finestre aperte.

a cosa servono gli amici

Gli amici si vedono nel momento del bisogno, il fatto è che però quale sia il momento del bisogno nessuno lo sa.

Ho conosciuto persone che gli amici li cercano solo quando stanno bene, altri che solo quando stanno male. Certi ti presentano subito la fidanzata, altri spariscono fino a quando non si sfidanzano. Alcuni ti raccontano tutto e altri non ti raccontano niente. Certi restano tuoi amici per sempre, altri un decennio sì e l’altro no, altri ancora per un periodo e poi mai più.

Essere amico di qualcuno è una specie di esercizio di sopravvivenza perché sei messo alla prova di continuo: se fai domande o se non le fai, se ti fai vivo tu o se aspetti che si faccia vivo lui, se sei dalla sua parte sempre o se cerchi di essere obiettivo per il suo bene: in realtà come la fai la sbagli ma anche, contemporaneamente, la fai giusta.

A cosa servono gli amici, io non lo so bene. Forse a esserci  come un salvagente che però ognuno lo decide da solo, quando tirarlo fuori da sotto al sedile. Alcuni anche mai, però sotto al sedile, il salvagente, quasi sempre c’è.

fossero calzini darei la colpa alla lavatrice

Ho perso i guanti.
Quando io dico che ho perso una cosa intendo che l’ho messa via, in un posto sicuro, così sicuro che poi non la trovo per anni e anni. Mi è già successo mille volte: con un orologio, il certificato elettorale, diverse carte importantissime e in quanto importantissime messe ancora più al sicuro del solito etc.
Ogni volta, nel vano tentativo di imparare dai miei errori, cerco di concentrarmi e ricordare il tipo di ragionamento che può avermi spinta a scegliere un nascondiglio invece di un altro: so che una logica c’è, solo che la ritrovo dopo un secolo, in genere dopo che ho abbandonato ogni speranza e solo grazie all’intervento del destino.

E insomma i guanti ho cominciato a cercarli all’inizio dell’inverno: ho messo a soqquadro la casa, rivoltato gli armadi (con l’occasione ho messo un po’ in ordine e ho buttato via della roba inutilizzata da alcuni lustri) ma niente: sono spariti.
L’inverno è stato più che mite e io ai guanti non ho più pensato fino a oggi, che devo preparare la borsa per andare in montagna. Ho trovato le calze grosse, le bandane da mare, i pantaloni da sci, i costumi da bagno, l’astuccio del cucito da viaggio, gli antibiotici di emergenza, doposci di varie taglie e fogge, palette e secchielli ma guanti nemmeno un paio.

Secondo me non è vero che ogni cosa ha un posto, ne ha almeno mille: se ne avesse uno ci sarebbe un cassetto a forma di mano fatto apposta per i guanti, invece io un cassetto a forma di mano non l’ho mai visto. Se invece c’è, lo voglio.

8 marzo festa della mutanda

Oggi è l’8 marzo e io festeggio la mia prima settimana di sciopero della lavatrice.

Confesso che è uno sciopero difficilissimo perché si scontra con la mia naturale tendenza al chioccismo, che è quella cosa che ti porta a trattare i tuoi figli come se fossero sempre i tuoi pulcini.

L’idea che la dispensa sia poco fornita, il bucato da stirare, che manchi il pane (orrore!) o che i pulcini tornino da scuola affamati e non ci sia il pranzo pronto nel giro di dieci minuti mi fa soffrire. È più forte di me e non posso farci niente. Questa volta ho deciso, però, di soffrire in silenzio e di pretendere da loro quello che è giusto che loro pretendano da se stessi, e cioè un minimo di autonomia.

I miei figli hanno un cesto della biancheria che straborda costantemente. Alle mie richieste di svuotarlo di tanto in tanto, e di trasferire i panni da lavare in lavanderia hanno risposto, dopo reiterati solleciti, con una sostanziale inerzia.
Fino alla settimana scorsa, superando il senso di frustrazione, mi sono sempre risolta a pensarci da me, a svuotare il cesto secondo un mio criterio, bianchi o colorati a seconda delle giornate, in modo che ci fossero sempre un certo numero di mutande pulite e un paio di jeans a disposizione.
Finché un giorno ho capito che sbagliavo: la femminista che è in me ha avuto un moto di ribellione, non al fatto di dover svolgere un lavoro che dovrebbe toccare ai miei figli, ma all’idea che due uomini educati da me diano per scontato che le incombenze domestiche siano esclusivamente di mia competenza. È giunto finalmente il momento di dare agli uomini la possibilità di essere nostri pari, e la consapevolezza che possono essere completi, indipendenti, liberi.

In realtà nella mia famiglia i maschi, che sono la maggioranza, hanno dei compiti che svolgono abbastanza frequentemente: apparecchiare e sparecchiare la tavola, svuotare la lavastoviglie (un lavoro che non piace a nessuno), occuparsi del conferimento dell’umido e del vetro nei cassonetti appositi. Queste mansioni però spesso vengono svolte dai due giovani come se fossero un favore, una gentilezza, un regalo. Qualche volta bisogna domandare, pungolare, incalzare per ottenere un servizio che dovrebbe essere svolto spontaneamente e per puro senso del dovere e della collaborazione. E quello del bucato è un compito che proprio non ne vogliono sapere di considerare come proprio.
Insomma, al momento la loro autosufficienza è incompleta e la mia battaglia per la parità dei sessi, per quanto dura, deve andare avanti.

Fatto sta che ho redatto delle brevi istruzioni sui programmi della lavatrice: bianchi, colorati e lana. Mi sono imposta di mantenere la calma anche quando la mattina alle 7:27 i ragazzi ciondolano senza calzini o vagano alla ricerca di una felpa.  Non che non abbia la tentazione di andare a controllare lo stato del loro cesto (del resto la loro ultima lavatrice risale a una settimana fa quindi posso immaginare la quantità di roba accumulata) o di buttare con nonchalance quattro cose loro nella lavatrice nostra ma so che devo resistere per il loro bene:  i maschi della mia famiglia hanno il diritto di diventare persone indipendenti, e non sarà la mia natura di chioccia a impedirglielo.

Mi consolo pensando che nessuno è mai morto per una mutanda riciclata dal giorno prima. Almeno, non credo.

facciamocene una ragione

Viene un momento per tutte le coppie, anche quelle solide, affiatate e inossidabili, in cui bisogna fare i conti con il cambiamento.

Te ne accorgi perché c’è sempre la tenerezza di un tempo, magari non manca nemmeno l’intesa erotica, però piano piano si scava una distanza, e ripensi a quando stretti un abbraccio ci si guardava negli occhi con desiderio.
Questo, ahimé, non succede più.
Del resto anche le relazioni amorose devono adeguarsi ai nostri mutamenti e sarebbe assurdo pretendere che dopo decenni quello sguardo fosse ancora come il primo giorno.

Può essere che per uno dei partner questo momento arrivi prima, e l’altro – deluso, spaventato, incredulo – domandi spiegazioni.

“Hai un’altra? Non mi ami più? Cos’è cambiato tra di noi?”
“È la presbiopia, amore.”