Il melograno che Lei ha in giardino – vorrei dirgli – è di una bellezza che fa male agli occhi. I suoi frutti hanno il colore esatto della parola palpito. Trasuda fertilità e abbondanza come nessun’altra cosa io conosca; mette voglia di rubarli, quei frutti, ho già in bocca il sapore dei chicchi che, posso indovinare, scoppiettando tra la lingua e i denti fanno lo stesso rumore della pioggia sul bagnasciuga.
È un peccato – vorrei dirgli – lasciare che l’albero, seppur magnifico nella sua perfezione cromatica, resti a sopportare il peso dei frutti già maturi: ne approfitti, lei con la sua famiglia; goda per me dello scrocchio nello spezzare la melagrana, della freschezza umida dei grani di rubino, della dolcezza acidula del succo che ricorda giorni dimenticati e delizie desuete.
Oppure ne regali qualcuna a me, che saprei cosa farne: così, vorrei dirgli.
Nel caso ne avanzi qualcuna, mi rendo disponibile all’addozione.
Di fronte a queste simbologie io, se fossi in lui, taglierei tutto e cambierei albero solo per sfidarti. Una bella pianta di kaki, per esempio.
Pensa che io non ho mai assaggiato il melograno.
L’albero, intendo.
Che bello Chiara, stasera guarderò il piccolo albero di melograno che abbiamo a casa con occhi diversi.
Se qualcuno suonasse il mio campanello per dirmi che un mio albero “è di una bellezza che fa male agli occhi” io mi commuoverei.
Oggi ho visto i melograni al bancofrutta della coop e sì, sì, è un’eresia in confronto a tutto ciò, ma ho pensato che “il colore esatto della parola palpito” è una definizione semplicemente perfetta (e bellissima).