Una cosa che una volta avrei postato nel blog, e infatti.

Ieri sono passata per Senigallia. Non era previsto, ci ho fatto una scappata e ne ho approfittato per mangiare il miglior gelato del mondo (dici niente!).

Mentre ripartivo mi sono saltati addosso tutti insieme i ricordi delle volte che invece a Senigallia siamo stati un po’ più a lungo: per una sera, o un weekend o una breve vacanza. Sono tutti ricordi vividi e piacevoli: un Caterraduno (che anno era?); il giorno in cui ho conosciuto dal vero la Lia; una sera in cui la Michi e Stefano hanno lasciato a casa i gemelli ancora piccoli per venire a cena con noi; un inaspettato pranzo di Ferragosto con Stark; altre persone, altri gelati, altro cibo, altre librerie.

Ho pensato che Senigallia è un po’ il simbolo della piacevolezza, per me. Mi ricorda come ci voglia pochissimo per stare bene quando gli amici immaginari diventano parte della tua vita.

Se fossi il sindaco mi darei la cittadinanza onoraria per motivi affettivi.

soprattutto non chiedetemi del contenuto del sacchetto

Una cosa che nessuno sa di me è che io, a mettere ordine, sono bravissima. Se sentite forte e chiara la sghignazzata di mio marito è perché sono una donna incompresa.

La verità è che sono davvero brava, solo che il mio ordine in genere dura un quarto d’ora, una mezz’oretta, a dimostrazione del fatto che l’universo tende naturalmente all’entropia. E chi sono io per smentire le leggi dell’universo?

Per sentirmi una persona migliore, in questi giorni di isolamento di cui ancora non si intuisce la fine, ho deciso comunque di riorganizzare (uno o due alla volta) gli sportelli della credenza. Non ho una cucina enorme, però i miei sportelli sono, lo ammetto, piuttosto caotici. Un po’ per colpa dell’universo, un po’ per colpa mia, un po’ perché anche se possiedo solo attrezzi da cucina indispensabili, gli attrezzi da cucina indispensabili sono tantissimi.

Ho dovuto scontrarmi con alcuni impenetrabili misteri del cosmo:

1. Esiste un luogo, un tempo, una dimensione parallela in cui si smarriscono i coperchi dei contenitori e i contenitori dei coperchi. Altrimenti non si spiega come mai nel mio cassetto dedicato risultino orfani dei loro compagni 18 coperchi e 4 contenitori di plastica. Uno lo si può buttare per errore nella spazzatura insieme alle bucce di patata, un paio dimenticare a casa di qualcuno (anche se io non porto queste cose in giro) ma 18 + 4 = 22 cosi di plastica persi per sempre sono un segno di qualcosa che non ho ancora ben capito.

2. Come sempre quando metti ordine, finisci per eliminare oggetti che non usavi da tempo, o per riesumare cose che avevi scordato e che dovresti restituire al legittimo proprietario. Questo – pensi – ti permette di avere più superficie libera per una nuova e diversa organizzazione degli spazi. AH, AH: ILLUSA!

3. Quando tutto è al suo posto e hai finito l’ultimo ripiano, ti volti e c’è un ultimo sacchetto di roba mista che non aveva e non avrà mai una collocazione.
Pensatelo ramingo, da un ripiano all’altro, da uno sportello all’altro, instancabile nel cercare uno spazio suo in mezzo a oggetti con cui non si identifica del tutto. Lo ritroveremo, uguale, tra qualche anno, la prossima volta che mi deciderò a sfidare le leggi del cosmo.

Le feste delle medie in tempo di pandemia

Io sono una che alle medie non veniva invitata alle feste perché era ovvio a tutti che non ci sarebbe andata.
Quando ho scoperto questa cosa avevo già 15 o 16 anni, le medie erano passate, io ero, di fatto, una disadattata conclamata e continuavo a non essere invitata a feste a cui effettivamente non sarei mai andata ma in cui comunque, ormai, non mi avrebbero proprio voluta.
La mia pluridecennale carriera di persona solitaria incomincia lì, tra gli 11 e i 17 anni, nella fase della vita in cui se non impari a stare in un gruppo diventi un asociale, perché l’adolescenza è un momento da vivere in gregge, e se non stai dentro il gregge o sei il lupo o la pecorella smarrita. Io ero smarrita.

È piuttosto difficile dire se io sia diventata solitaria per colpa delle feste delle medie oppure se lo sia per natura. Col senno di poi riconosco che la differenza tra snobismo e timidezza, per un undicenne, è abbastanza sottile quindi non sapremo mai se un invito alle festine in garage avrebbe fatto di me una persona diversa. Sta di fatto che è lì che ho cominciato a sentirmi come mi sento tutt’ora e cioè una che non è capace di sentirsi a suo agio nelle comitive, e a sviluppare il mio superpotere che è quello di non annoiarmi quasi mai in compagnia di me stessa.
Non fraintendetemi, io amo la compagnia, solo che ho paura dei gruppi perché nei gruppi, è inevitabile, io sono quella fuori posto, sempre.

Col tempo, anche grazie al fatto che mi sono accoppiata piuttosto stabilmente con un animale sociale (io e mio marito siamo il paradigma, l’incarnazione del concetto di complementarità) e quindi in diverse occasioni mi sono dovuta allenare a frequentare dei gruppi di persone, credevo di aver leggermente superato questa cosa fino a quando la pandemia non mi ha messa di fronte alla cruda verità: non è cambiato niente.
Nel momento in cui l’isolamento forzato sta facendo riemergere in tutti, e quindi anche in me, il desiderio di vedere persone, chiacchierare, sentirsi vicini, l’equivalente della festa delle medie si è materializzato attraverso le piattaforme di meeting online in cui tutti i miei gruppi di amici, circoli di lettura, frequentazioni dell’internet, stanno cominciando a incontrarsi per aperitivi a distanza, chiacchiere in pigiama, discussioni dal divano. Tranne che adesso io sono invitata.
Ho capito che è vero, che alle feste delle medie non sarei andata, non perché non avrei voluto ma perché non sarei stata capace. Adesso mi sembra ancora più difficile perché se è vero che a una festa ti puoi mimetizzare col divano e scomparire, scomparire quando sei in video con 15 persone mi pare difficilissimo perché io, nel dubbio, ho bisogno di sapere che c’è un divano su cui mimetizzarmi se non ho niente da dire, se non so che faccia indossare o se mi sento fuori posto. Come ci si mimetizza davanti a una webcam? Si può stare lì zitti con la faccia e tutto senza sentirsi scemi?

Ho di nuovo 15 anni e la certezza di non farcela.

 

mica la chiamano rete per niente

Una volta, quando non c’era l’internet, potevi anche vivere in pace. Sereno. Soddisfatto. Non sapevi, allora, quante cose ci fossero da imparare, fuori. Per scovarle, bisognava scartabellare chissà che bibliografie, impegnarsi, fare una ricerca mirata. Probabilmente impazzire per la mancanza di materiale a disposizione. Ma dovevi già sapere che le volevi, quelle informazioni, e il più delle volte vivevi quieto nella tua beatissima ignoranza e continuavi a fare le tue cose, la tua vita, senza sensi di colpa e senza grosse tentazioni. Qualche volta facevi un corso, perché ti interessava molto.

Adesso le tentazioni ti saltano addosso da tutte le parti, mentre cerchi un tutorial per utilizzare al meglio il tuo telaio a pettine liccio te ne escono altri dieci che ti spiegano tecniche di cui non avevi mai sentito neanche parlare e che improvvisamente devi fare tue, ti sembra che la tua vita senza  arazzo a quattro cimose sia una vita sprecata, capisci di non poter andare avanti senza possedere un crochet de Lunéville, sai con certezza che non potrai trovare la tua strada senza momigami. Non si può stare un giorno senza essere aggrediti da una scoperta meravigliosa, e se per disgrazia conosci più di una lingua (con l’inglese, per dire, hai finito di vivere) hai a disposizione un archivio sterminato a cui attingere, nonché gente fanatica in qualunque parte del mondo che non vede l’ora di darti una mano.

La mia vita è un inferno, amici.

prezioso

Qualche giorno fa ero con un bambino che tenevo per mano: cercavo di evitare che cadesse  saltellando da un gradino all’altro di un muretto, mentre io camminavo vicino a lui sulla strada. Il muretto era più interessante della strada e lui saltava dai gradini, troppo alti per lui, confidando sulla saldezza della mia mano. Io lo pensavo molto concentrato sui salti finché a un certo punto mi ha detto: “Vedrai che capirai, Chiara!”

Lì per lì non ho intuito. Pensavo si trattasse del muretto, e dei salti. Gli ho anche chiesto spiegazioni, ma lui ripeteva la stessa frase, con quell’accento sul mio nome, Chiara, facendomi intendere che si trattasse di un’anticipazione che aveva deciso di accennare appena, per prepararmi a una scoperta, una rivelazione, una meraviglia.

Però quando ho visto, ho capito. E in questi giorni ci ho pensato ancora, a quel gesto generoso e delicato di dire senza dire, per lasciarmi l’aspettativa di un’emozione senza tuttavia rovinarmi la sorpresa. Mi è parso un regalo prezioso.

Quando sapevo scrivere

Oggi, per una ragione banale, mi sono trovata a rileggere un post (anzi due) scritto da me, qualche anno fa. Quando sapevo scrivere.

Come sia possibile che uno disimpari a scrivere io non me lo spiego. Voglio dire, non ho un tumore al cervello (almeno, non credo). Non ho avuto traumi che mi impediscano di farlo, e scrivere a me è sempre piaciuto un sacco. Sono stata una discreta grafomane negli anni dell’adolescenza e un po’ anche dopo, e ho tempestato stalkerato di lettere d’amore e di amicizia più di una persona (che probabilmente non disprezzerà il mio blocco attuale).
Gli “anni del blog” (sapete tutti quello di cui parlo, vero?) sono stati tra i più vivaci della mia vita per quanto riguarda le relazioni, e questo solo grazie alla scrittura, che ho vissuto sempre come la modalità di comunicazione che più si confà al mio modo di essere. Un modo non particolarmente estroverso, lo ammetto. Le parole io le trovo sempre con calma (qualche volta con grave ritardo), e la comunicazione orale non ha pazienza, vuole reazioni rapide, brillanti, sciolte. Io non le ho mai. Una volta incontravo risposte maturate nel silenzio di una pagina bianca (o a righe, o a quadri); addirittura nel ticchettio zoppicante della tastiera del computer. Mi piaceva, tanto. A volte forse ero brava. A rileggerle adesso mi pare che le abbia scritte un altro.

Da quando ho le mani piene – di attrezzi, di lavoro, di materia che mi appartiene – la testa è completamente vuota di parole da dire e del modo di dirle: il pensiero passa per le mani e diventa subito concreta espressione di un’idea. È così lontano dalla consistenza astratta della scrittura, questo modo di esprimere, eppure al tempo stesso timidamente simile alla poesia, che racconta senza spiegare e accenna senza rivelare. Più affine, forse, alla me di oggi, che accetta che non tutto sia palesato.

shall I compare thee to a cup of tea?

Devo ammettere che prima di questa vacanza avrei optato per una tazza di brodo, o di latte e cacao, ma un vero viaggio ti lascia sempre qualcosa di nuovo da portare a casa ed ecco che il mio ricordo dell’estate 2018 è il tè nel giardino di Broughton Castle: un tè con tutti i crismi, una goccia di latte e un piattino di scones con la marmellata e la clotted cream. Ombra e luce, rilassatezza e pace. Indimenticabile.

L’Inghilterra, o meglio questa parte di Inghilterra, è quindi paragonabile a una tazza di tè? Io credo di sì. Certo, è più tiepida, e più verde (ma neanche troppo, dopo un’estate asciutta come questa).
Quello che posso dire è che l’ho trovata rassicurante: è come te l’aspetti, anche meglio di come te l’aspetti, ma senza colpi al cuore. Ha una sorta di eleganza tranquilla, languida, pacificante. Non voglio dire che sia prevedibile ma in un certo senso, anche nei momenti in cui ti sorprende, è classica, quieta, controllata, riposante. Bellezza in mancanza di sublime, riempie gli occhi e i passi senza scuoterti. Devo dire che l’ho apprezzato.

Mi ritrovo ad amare la campagna inglese senza essermene mai follemente innamorata, e credo che questo sia il suo pregio: conquistarti senza farti perdere la testa. Come una tazza di tè, che probabilmente non ha l’appeal di una cioccolata calda, ma che puoi concederti senza sensi di colpa perché nei momenti di necessità è certo che ti scalderà lo stomaco e un po’ il cuore, ma senza far danni.

Certo con un biscotto è meglio, come l’Inghilterra col sole.

 

se fosse droga

Nel giardino di Luciana, ho sentito l’elicriso da lontano; ci ho tuffato le mani, e nelle mani il naso. L’elicriso ha un profumo che poi si annida in qualche area speciale del cervello perché te lo porti a spasso tutto il giorno, anche dopo che dalle mani hai dovuto lavarlo via: ogni volta che respiri, è come se lo annusassi di nuovo anche se non c’è. Non occorre spiegare quanto io lo ami, questo odore che non va via, è un po’ come una droga, e se fosse droga io lo vorrei perché un effetto un po’ psicotropo per me ce l’ha: mi fa sentire il mare.

8 marzo e cose da femmine

Oggi, per la Festa della donna Giornata internazionale delle donne, mi sono decisa a fare una cosa da maschi . Più che per il fatto che è considerata una cosa da maschi, non l’avevo mai fatto perché è una roba che , come mio marito sa bene, proprio non mi interessa per niente, però oggi ho capito che era venuto il momento. Insomma, sono andata a lavare la macchina con gli spazzoloni: i maschi godono proprio a lavare la macchina con gli spazzoloni, si vede benissimo, e secondo me sarebbe anche una cosa abbastanza figa se ti lasciassero rimanere dentro, mentre lo fai. Invece no, non si poteva.
Comunque era facilissimo: bastava leggere le istruzioni, una cosa in cui le femmine sono bravissime – secondo me anche un po’ più dei maschi – poi posizionare la macchina nel punto giusto (c’era un semaforo, impossibile sbagliare), chiudere gli specchietti e togliere l’antenna (non ci arrivavo, l’ho fatto fare a mio figlio ma solo perché è più alto) e far partire l’ambaradàn.

Quindi da oggi anche questa è diventata una cosa da femmine, come praticamente tutte le altre cose tranne forse fare la pipì in piedi. Anche se devo confessare che quello che mi ha convinta non è stato tanto l’8 marzo quanto il fatto che la macchina fosse veramente  (ma veramente) lurida.

(E fare la pipì in piedi, in casi eccezionali, si può).